Antropologi, sociologi e studiosi delle religioni sono concordi nel ritenere il pellegrinaggio come uno dei fenomeni più antichi e diffusi della storia umana. Anche la definizione più scarna del viaggiare – “trasferirsi da un luogo all’altro” – si carica di molteplici significati non appena la leghiamo al pellegrinaggio e riflettiamo su cosa intendiamo per “luogo”, su cosa pensiamo dicendo “altro”, su cosa comporta “trasferirsi”.
Anche nell’ambito storico-mitologico proprio della tradizione giudeo-cristiana il viaggio inteso come esodo, pellegrinaggio costituisce il paradigma capace di fornire la chiave di lettura dell’intera rivelazione biblica. Così “tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, e in particolare per ‘il figlio perduto’”(Giovanni Paolo II, TMA 49).
Se il pellegrinaggio, infatti, è metafora dell’intera esistenza umana, allora diviene anche il “luogo” in cui il cristiano è chiamato alla santità, il percorso che ha come meta visibile un “luogo santo”, ma come scopo, la santificazione del pellegrino, “figlio perduto” che ritrova la propria santità nel cammino verso la santità del Padre che lo attende.
In realtà il pellegrinaggio ha una dimensione paradossale: il pellegrino lascia la propria terra, la propria casa per andare verso un “altrove”, percepito come luogo in cui poter ritrovare le proprie radici: si mette in movimento cioè per ritrovare stabilità, saldezza. Ricordiamo il salmo che fa di Gerusalemme, luogo santo per eccellenza, luogo di pellegrinaggio, non solo la meta ma innanzitutto la “radice” di tutti i popoli: “L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda.
Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato. E danzando canteranno: Sono in te tutte le mie sorgenti” (Sal 87,5-7). In altre parole nel pellegrinaggio si va verso se stessi, si risale alle proprie origini, a ciò che ci fa sussistere, si torna al proprio cuore, un cuore però decentrato da se stesso, un cuore nuovo e antico, un cuore “altro”, unificato, deposto in noi dalla misericordia del Padre.
È in questo senso che emerge anche l’importanza dei due elementi fondamentali e complementari del pellegrinaggio: da un lato il viaggio stesso, l’essere in movimento, l’iter che si compie, dall’altro il luogo a cui si desidera pervenire. Lo snodarsi del viaggio ha una dimensione di esodo, di uscita dal proprio mondo, di costante cambiamento di prospettive, di orizzonti, di panorami, un’inesauribile ricchezza di volti e paesaggi nuovi, un’alternanza del pensiero tra il luogo noto e certo che si è lasciato e l’ignoto cui si va incontro e del quale si sa solo che può offrirci nuova e duratura saldezza.
La meta del pellegrinaggio deve dal canto suo essere chiara fin dalla partenza: “nessun vento infatti è favorevole alla nave che non sa a quale porto vuole approdare”, ammoniva Seneca. E questa sua qualità di “meta”, di telos, di compimento le viene proprio dal poter offrire al pellegrino che le corre incontro quel clima di anelito alla santità, quello “spazio sacro” di fronte al quale ci si toglie i calzari del viandante, quel “faccia a faccia” con la verità che fa esclamare “Dio è là”.
I rabbini si chiedevano chi preghi veramente e di più: il credente o Dio? E concludevano che Dio prega gli uomini molto di più di quanto gli uomini facciano con Dio, perché egli sempre prega gli uomini di ritornare a lui: “Ritornate, ritornate a me”, dice il Signore (cf. Ger 3,12.14.22; 4,1; Mal 3,7; ecc.), “Uomo, dove sei?” (Gen 3,9). Dio prega gli uomini affinché tornino a lui intraprendendo un cammino, un itinerario dalle regioni dell’idolatria, dall’alienazione della morte per approdare alla comunione con lui, trovando così pienezza di vita, di pace, di shalom. Dice infatti il Signore, il Santo di Israele: “Nel ritornare a me (nella conversione) e nella riconciliazione sarà la vostra salvezza” (Is 30,15).
Nel pellegrinaggio cristiano autentico, al cammino materiale dell’homo viator deve corrispondere il cammino del “ritorno” (teshuvà-metánoia) a Dio, cammino destato e voluto dal Signore che chiama: questo cammino dunque è un dono, è la risposta a una chiamata, alla preghiera che Dio rivolge a ogni essere umano.
Dio non sta solo alla fine del cammino di conversione, quando ci appare con le braccia aperte del Padre che ci viene incontro perché ci ha visto da lontano (Lc 15,20), ma, con la sua presenza invisibile eppure efficace, Dio sta anche all’inizio di tale cammino perché è lui che crea in noi il desiderio di camminare per ritornare a lui. Per questo il profeta prega: “Signore, fa’ che ritorniamo!” (Sal 80,4.8.20), e ancora: “Facci ritornare, Signore, e noi ritorneremo” (Lam 5,21; cf. Ger 31,18). Si potrebbe dire che la conversione implica un esodo, una uscita da e un andare verso che ha come meta Dio stesso.
Se questo è il senso più marcatamente cristiano del pellegrinaggio, la pratica del camminare verso un luogo animati da un’intenzione spirituale è comune a ogni universo religioso. In particolare, in ogni tempo e in tutte le tradizioni culturali, religiose e spirituali, la “montagna” – a prescindere dalla sua altezza effettiva – ha costituito un rimando simbolico alla dimensione del sacro.
E non potrebbe essere altrimenti, se si considera che il rilievo montuoso mette in connessione fisica e visiva i due elementi sacrali per eccellenza: la terra – la grande madre, il grembo fecondo di vita e di frutti – e il cielo, quella volta abitata dagli astri che comunica all’essere umano la percezione della trascendenza e dell’immortalità.
Né si possono dimenticare gli elementi che favoriscono la simbolica dell’accostarsi alla montagna come cammino di ascesa interiore e di ricerca di sé: si pensi alla contrapposizione tra l’orizzontale della pianura e il verticale del monte, oppure all’alternarsi di salite e discese, o ancora allo sforzo (ascesi) necessario per l’ascesa e alla preparazione che obbliga al caricarsi del solo necessario; anche l’affinarsi dell’aria, il rarefarsi della vegetazione, il semplificarsi dei colori, l’alternarsi delle condizioni meteorologiche contribuiscono a un analogo cammino interiore di purificazione.
Inoltre, le montagne ispirano per la forma stessa di paesaggio che determinano, una sensazione di timore, una percezione del “numinoso” che sembra abitarle: non è un caso se molte culture di tipo tradizionale le hanno sempre ritenute dimora di dèi e demoni, quindi luoghi da temere e venerare.
Vi è una sorta di filo rosso che collega montagne lontane e tradizioni remote, rendendole vicine e contemporanee: la valorizzazione di antri e grotte, la costruzione di templi e memoriali, la pratica di pellegrinaggi e riti ricorrenti paiono costituire una sorta di linguaggio universale che l’essere umano non ha mai cessato di conoscere, di praticare e di arricchire.
E in questo senso le immagini sono a volte ancora più eloquenti delle parole: di fronte all’incanto di certi paesaggi o all’imponenza di monti e vette si fatica a discernere di primo acchito a quale tradizione religiosa o spirituale appartengano, anche perché non sono rari i casi di luoghi che nel corso dei secoli hanno assunto valenza simbolica per fedi via via diverse.
Non sorprende allora che sia comune a molte tradizioni spirituali parlare di “vette della conoscenza” o il dato che momenti chiave della rivelazione e del rapporto con il sacro e il santo siano avvenuti “sul monte”: la sua forza simbolica è tale che anche umili colline sono chiamate “montagne” nel momento in cui divengono luogo dell’incontro con una realtà più grande e più profonda dell’uomo, meta di un pellegrinaggio che è prima di tutto interiore.
Enzo Bianchi
(articolo tratto da www.monasterodibose.it)