Gli squilibri del mondo contemporaneo “si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo” (GS 10). Nonostante il progredire delle ricerche scientifiche ed una maggiore diffusione del benessere nel mondo, in tanti ambiti, restano ancora senza risposta gli interrogativi più profondi sul dolore, sulle ingiustizie, sulla dignità calpestata della persona, sul senso dell’esistenza, sui diritti fondamentali in più parti conculcati.
I processi di secolarizzazione e di globalizzazione in atto hanno generato nel nostro tempo una ischemia verticale non solo dei valori cristiani ma anche del senso religioso ed etico della vita. Nel difficile momento storico che stiamo attraversando, caratterizzato da forti mutamenti economici, socio-culturali-politici e religiosi, «stiamo vivendo un mutamento d’epoca, più che un’epoca di mutamenti»[1], è urgente ripensare coraggiosamente a nuovi modelli culturali, con l’obiettivo di rifondare eticamente ogni forma dell’agire umano.
Il postmoderno
Consapevoli che ormai abbiamo voltato le spalle ai tempi della cristianità in cui tutto si dava per scontato o che tutto era accolto per tradizione, oggi dobbiamo fare i conti con le esigenze imposte dalla nuova società e dalla cultura postmoderna. A ben guardare, però, la cultura postmoderna «designa l’emergere di un insieme di fattori nuovi che quanto a estensione ed efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli» (Fides et ratio, n. 91).
Questa consapevolezza necessita tuttavia di un cambio di visione. Occorre adeguare il proprio sguardo a un modo nuovo di interpretare la realtà cogliendo alcuni segni del nostro tempo. Il problema più difficile, oggi, che non si rincorrono più i grandi progetti ideali e non si offrono più scopi di vita, ma «si manifestano dubbi verso tutte le forme dei movimenti di liberazione»[2], sembra quello della interpretazione del presente, ossia della storia in cui viviamo; soprattutto se si tratta di decifrare gli orientamenti che vanno verso il futuro e di fare progetti sulla base delle indicazioni che emergono dalle situazioni.
Si tratta, dunque, di coltivare e far crescere la capacità sapienziale del discernimento sulla storia, sui suoi straordinari cambiamenti per “scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto” (GS 4). In questa prospettiva, l’inveramento cristiano della storia non può che svilupparsi nella consapevolezza di essere impronta di una novità, quella cristiana appunto, che si introduce nella storia come offerta di una visione differente dell’uomo, della vita, della cultura.
La rivelazione, infatti, essendo “la vera stella di orientamento per l’uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica” (Fides et ratio, n. 15) pone in essere un blocco verso qualsivoglia ostentazione di relativismo culturale che predilige assolutizzare la stessa cultura a svantaggio del servizio alla condizione umana. È necessario, allora, che il cristiano che vive della fede, costruisca la propria condotta morale sulla propria fede.
Le pratiche della fede
È veritiero ciò che afferma san Paolo, “siamo giustificati gratuitamente per grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù Cristo” (lettera ai Rm, 3, 24). Ma se colui che è “giustificato” non fa le “opere” di chi è stato “reso giusto”, la sua giustificazione non gli serve a nulla, anzi diverrà la sua condanna. Pertanto, la peculiarità dell’etica ebraico-cristiana non va dunque investigata sul terreno dei contenuti ma su quello dei significati che essa assume in virtù della propria collocazione nel contesto dell’esperienza di fede.
Si avverte, allora, l’esigenza di un ritorno all’etica, sola capace di far recuperare ad ogni agire orientato al bene comune il suo costitutivo potenziale umanizzante. In questo senso l’etica diviene una sorta di campo neutro che non può essere assorbito né dalla fede né dalla politica, ma ha legami profondi con le due: dalla fede riceve nuovi impulsi, che raggiungono la politica senza alterarne i contorni, e dalla politica stimoli nuovi.
L’etica, dunque, conferisce alla vita il suo senso ultimo, la orienta al fine che le appartiene: vale a dire il servizio integrale dell’uomo e dell’intera famiglia umana. C’è bisogno, allora, di più chiarezza e di maggior coraggio nel professare l’appartenenza alle proprie radici, proclamando l’identità di essere cristiani di fronte alle tentazioni subdole promosse da una certa politica o di fronte alle insidie tese da un laicismo pseudo-religioso che si è radicalizzato nella cultura del nostro tempo. Paolo VI ci parla del paradigma del “cristianesimo contemporaneo”, ossia di una religione del Dio fattosi uomo che si scontra con la religione dell’uomo che si fa Dio.
Perciò, se è veritiero che dove si accresce il pericolo si amplia anche ciò che salva, allora l’incombenza che ci aspetta risulta essere quella di una riflessione tanto azzardata ed impegnativa, quanto attinente non all’ambito dell’astratto o dell’accademico, ma a quello dell’esistenza credente e della sua possibilità di esprimersi nell’oggi della storia.
Il mondo è il campo dove il Padre ha seminato le messi «che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4, 35) e che attendono di essere raccolte; il rapporto giusto perciò non è la condanna e molto meno l’abbandono, rieditando la fuga mundi, ma il dialogo rispettoso cercando nella storia le vestigia della bontà radicale delle cose, che resiste alla forza deteriorante del peccato, secondo la promessa di Dio che si dona e si comunica come vicino al cammino dell’uomo e in difesa della sua dignità.
Trasformare la storia
Interpretando la storia con questa consapevolezza, i segni dei tempi non sono solo minacciosi, non ci parlano solo di “cronaca nera”, di scandali, di ruberie e cricche varie: per questo non dobbiamo chiudere gli occhi alle tante manifestazioni di amicizia, di solidarietà, di carità fraterna, di volontariato che sono un vanto, il fiore all’occhiello di questa amata comunità ecclesiale che è la Chiesa.
La speranza della fede è potenza di trasformazione della storia, nel senso che a partire dallo sguardo di Dio sul mondo ogni forma del bene, dell’amore possa trovare attuazione, quale inizio e figura di una pienezza nel sempre del futuro ultimo dischiuso da Dio: i beni, quali la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale”[3].
Dentro questa speranza viva, i cristiani sono chiamati ad una spiritualità della responsabilità rispetto alle faccende del saeculum, ad una spiritualità dell’immersione nel mondo, senza creare inutili schizofrenie tra “sacro e profano”: è la spiritualità del quotidiano e del feriale, nella quale l’impegno secolare è la forma ordinaria di obbedienza a Dio, ed esercizio del proprio dovere verso il prossimo e verso Dio: “il distacco, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo (…). Non si vengano ad opporre, perciò, così per niente, le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall’altra”[4].
Contro il tentativo, piuttosto in voga in questo periodo, di una ristatalizzazione di ogni “azione politica” per il bene comune, è opportuno adoperarsi per ribadire con forza la necessità di una terza via, che si colloca tra statalismo e mercatismo: la sussidiarietà circolare, principio tanto caro al pensiero montiniano, espresso nella Populorum Progressio e pietra miliare della Dottrina Sociale della Chiesa.
Dobbiamo essere in grado di coinvolgere tutte le soggettività sociali per fare comunità nei territori, per ricomporre legami sociali sempre più in crisi. Come ci ricorda uno dei più acuti interpreti del nostro tempo, Zygmunt Bauman, viviamo in un’epoca in cui la socialità è sommersa da una fluidità sempre più difficile da governare.
L’umano personale
Ogni agire politico cristiano, dunque, non può che avere come cardine la “persona umana”. Circa la definizione di persona c’è da dire che non è remota quanto la filosofia, ma si è introdotta ad un certo punto della storia della riflessione dell’Occidente e ben presto è divenuta ineludibile per parlare tanto dell’uomo quanto di Dio. La stessa Dottrina sociale della Chiesa ha più volte insistito sulla centralità della persona, definita da Pio XII “soggetto, fondamento e fine” della vita sociale.
Non a caso l’oggetto principale d’ogni pensiero filosofico è il binomio Dio-Uomo. E non è fuori luogo pensare che ogni filosofia, ogni teologia supponga sostanzialmente un’antropologia.
La persona, infatti, pur sistematicamente confutata da più parti è ricorrentemente oggetto di tentativi di (presunto) “superamento”, rimane il necessario fondamento di ogni esperienza di socialità che mette al centro la relazione e, in particolare, tra le diverse forme possibili di relazione, la “prossimità”, intesa non semplicemente come uno stare di fronte all’altro o uno stare uno dentro l’altro, ma come un farsi prossimo dell’altro, un avvicinarsi all’altro. La prossimità infatti, non è uno status tranquillo e acquisito, piuttosto un continuo andare verso l’altro. L’io non è il tu, ma solo nel tu può prendere avvio l’esperienza del noi, che è mistero di amore, gratuità, condivisione.
A tal proposito lo psicologo Luigi Zoja (La morte del prossimo, Torino 2009) parla della “morte del prossimo” per descrivere la crisi della socialità, dei legami di prossimità. Così dice: “dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine”. Si tratteggia, perciò, l’attività di volontariato organizzato di ispirazione cristiana come “avamposto di prossimità”, avvenimento sociale e cristiano o anche come opera filantropica, ovvero, atto di liberalità non sillabato da giustificazioni utilitaristiche.
Di fronte alla precarietà che stiamo sperimentando, è possibile, dunque, guardare a contro-prospettive, provando a ragionare sul come, con il coraggio dell’incertezza e la creatività dell’amore, come ci esorta papa Francesco. Un impegno che veda insieme i credenti in Dio e i credenti nell’uomo impegnati a realizzare un nuovo umanesimo.
Articolo tratto di Pietro Groccia e Angelo Palmieri tratto da
http://www.settimananews.it/cultura/laici-spiritualita-del-feriale/?utm_source=newsletter-2020-08-18