Un asso in chimica e in matematica. Voce da popstar e leader di un gruppo musicale. Versatile negli sport e abile nel suonare la chitarra tanto quanto il basso. Ma soprattutto quotidianamente devoto a quella che chiamava la sua “missione di infiltrato tra i giovani”, chiamato a “parlare loro di Dio”. Si terrà il 24 aprile 2017 la sessione conclusiva della fase diocesana del processo di beatificazione di Matteo Farina, nato ad Avellino e cresciuto a Brindisi.
I sostenitori del ragazzo morto a 19 anni dopo avere subito tre interventi per rimuovere un tumore cerebrale hanno fondato un’associazione e animano le pagine social in suo nome. Un quasi santo 2.0 che può contare su un profilo Instagram (matteofarina19), una pagina Facebook e un hashtag ufficiale #matteodonodidio. Chi lo ha conosciuto parla di un ragazzo fuori dal comune non soltanto per la pagella da dieci e lode in tutte le materie, nessuna esclusa. Ma per una intima serenità nell’affrontare la malattia sostenuta da una fede altrettanto profonda di cui ha lasciato prova scritta nei suoi diari.
Quelle pagine sono fra i documenti alla base della documentazione al vaglio del tribunale ecclesiastico, al pari delle testimonianze di chi ha conosciuto Matteo. Fra questi il dirigente scolastico dell’Itis Majorana, Salvatore Giuliano, la scuola diventata famosa per il ‘Book in progress’ e un processo di digitalizzazione all’avanguardia su scala nazionale. Se il processo di canonizzazione si concluderà positivamente, Matteo sarà il primo beato del Salento.
Preside, quando ha conosciuto Matteo Farina?
“L’ho incontrato per la prima volta a ottobre, anno scolastico 2008-2009. Io ero arrivato a scuola a settembre, lui era già ammalato gravemente e mancò da scuola a lungo. Quando finalmente poté ritornare a lezione venne a trovarmi con la mamma. I professori mi avevano preparato parlandomi a lungo di lui. Non solo e non tanto perché aveva una pagella con il massimo dei voti in tutte le discipline. E nemmeno perché fin da ragazzino era costretto a convivere con interventi al cervello, radioterapia e affini. Quella mattina mi raccontò la sua storia, quello che stava attraversando. Nella sua voce non vibrava ombra di rammarico, rabbia, dolore. Parlava con una serenità che mi colpì e mi atterrì insieme e capii quello che i professori volevano dirmi. Io, adulto, non riuscivo a capire da dove venisse la forza di quel ragazzino che avevo di fronte: di certo mi stava dando una delle lezioni più grandi che ho mai ricevuto nella mia vita”.
Materie preferite?
“Amava la chimica oltre ogni misura. Dopo avere frequentato il biennio al Giorgi si iscrisse al nostro istituto proprio per potere approfondire la chimica. Voleva ‘studiare la perfezione dell’atomo, in cui percepiva la grandezza di Dio’, come ha scritto la postulatrice Francesca Consolini nella biografia ufficiale di Matteo. Ma era un asso anche in matematica. Aiutava tutti gli altri compagni. Non li faceva copiare, ma metteva a disposizione i suoi pomeriggi per dare loro lezioni private. Ecco, non so come dire: la malattia per lui era un ingombro, un fastidio nella misura in cui non gli consentiva di venire a scuola. Ricordo una delle volte in cui era andato ad Hannover per sottoporsi all’ennesimo intervento. Appena si svegliò disse che doveva riprendersi in fretta perché doveva studiare matematica”.
I coetanei lo chiamavano ‘il moralizzatore’. Ha mai colto un accento di scherno da parte dei compagni nei confronti di questo adolescente che si definiva ‘servo di Dio’?
“Era molto severo, con sé stesso e con gli altri. Ma nessuno lo ha mai preso in giro. Era un leader, gli altri ragazzi lo percepivano come la guida della classe, della scuola”.
Ed era anche il leader di un gruppo musicale, i No name.
“Sì, faceva anche quello. Ma la band in cui lui era la voce nacque perché voleva stare vicino ad alcuni amici. Pare che qualcuno avesse preso o stesse per prendere una cattiva strada: per distoglierlo da cattive frequentazioni si inventò questa cosa del gruppo. Prendeva molto sul serio il suo ruolo di infiltrato, chiamato a ‘entrare tra loro silenzioso come un virus e contagiarli di una malattia senza cura, l’Amore’. È una delle cose straordinarie che ha scritto nel suo diario”.
Lei ha mai provato imbarazzo di fronte a Matteo?
“Era la sua serenità di fronte alla malattia che mi imbarazzava. Per il resto si portava appresso il suo grande carisma con una semplicità tale da abbattere ogni barriera, cancellare ogni sensazione di inadeguatezza che anche gli adulti avrebbero potuto ragionevolmente provare di fronte a lui”.
Uno studente modello, di sicuro. Ma avete mai avuto la sensazione di avere avuto una persona in odore di santità fra di voi?
“Le racconto un aneddoto. Negli ultimi mesi di vita la scuola organizzò una festa in occasione del suo ritorno da Hannover: fu l’ultimo intervento e lui era già sulla sedia a rotelle. Festeggiammo tutti insieme. Alla fine della festa lo accompagnai fuori, rimanemmo da soli. Sapevo che non l’avrei rivisto, lo sentivo. Mi disse: ‘Preside, farai grandi cose. Vai avanti e non avere mai paura”. Fu profetico. La digitalizzazione della scuola all’epoca non era ancora partita. Mi ricordo quella scena come fosse ieri. Fu profetico”.