La tentazione del credente di impedire e porre ostacolo all’azione dello Spirito se questa si manifesta in modi e forme non corrispondenti ai suoi schemi; una visione chiusa e rigida dell’appartenenza comunitaria di contro a una visione aperta e accogliente; la gelosia come grande minaccia portata alla vita comunitaria.
L’atto con cui i discepoli impediscono a uno sconosciuto di cacciare demoni perché non fa parte del loro gruppo (“non era dei nostri”; letteralmente: “non ci seguiva”) mostra anzitutto la frustrazione che diventa arroganza. Incapaci di scacciare il demone che affliggeva l’epilettico (cf. Mc 9,18), i discepoli proibiscono di cacciare demoni nel nome di Gesù a un estraneo che ci riusciva, e questo solo perché “non li seguiva”.
Ma quel gesto mostra anche la pretesa del gruppo dei discepoli di detenere il monopolio della presenza del Signore e di stabilire chi può accedere al “Nome” santo e chi no. È una pretesa di dominio e di potere. Alla concezione di un’identità di gruppo chiusa ed escludente propugnata dai discepoli, si oppone la concezione aperta e inclusiva di Gesù. A coloro che dicono: “Non ci segue, dunque deve essere escluso”, si oppone Gesù che dice: “Chi non è contro di noi è per noi”. Gesù non è totalitario e non afferma che tutti debbano appartenere al gruppo dei suoi discepoli. Il Nome del Signore travalica i confini della chiesa che tale Nome confessa.
Nel nostro testo, in cui appartenenza e identità del gruppo dei discepoli appaiono in primo piano, affiora anche il problema dell’inimicizia. Ai discepoli che vedono un nemico nell’esorcista estraneo, Gesù dice: “Chi non è contro di noi, è per noi”. Il rapporto chiesa-nemico si situa all’interno di una fondamentale polarità. Da un lato, se la chiesa vive la radicalità evangelica e lo spirito delle beatitudini, non può non conoscere persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; dall’altro, la stessa radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di entrare in regime di inimicizia con gli uomini non credenti o di dar nome di nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente sono segnati da diversità o estraneità. Sul problema dell’inimicizia la chiesa gioca la sua capacità di assumere e gestire, positivamente o meno, il problema dell’alterità e della differenza al proprio interno e di fronte a sé.
La Potenza e la Presenza del Signore non sono in mano ai soli cristiani, ma sono suscitate dallo Spirito e noi “dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22). Nemmeno la chiesa può pretendere questa conoscenza, pena il ridurre Dio a idolo e il divenire occasione di scandalo, cioè inciampo e ostacolo al cammino dell’uomo verso Dio. Certamente la prima accezione delle parole di Gesù sullo scandalo è comunitaria, e intravede la possibilità che un corpo comunitario si opacizzi al punto da non essere più trasparenza della presenza di Cristo. Ma tali parole hanno anche una valenza personale: occorre vigilare sul proprio agire (mani), sul proprio comportamento (piedi) e sulle proprie relazioni (occhi) per non divenire un ostacolo alla vocazione e al cammino di fede dell’altro. Anzi, occorre il coraggio della rinuncia a ciò che può ostacolare l’ingresso nel Regno, ingresso che avviene non a partire da un di più o da un pieno, ma da un vuoto, da una mancanza, da una povertà. Abbiamo qui l’esigenza (oggi forse impopolare) di un’ascesi, di una lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un agire, a un comporta-mento e una relazionalità antievangelici. Tagliare e cavare (lett. “gettare”) non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma indicazioni realistiche di una lotta da combattere ogni giorno per purificare il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. C’è un perdere la vita che è essenziale per trovarla in Cristo (cf. Mc 8,35).
(Luciano Manicardi)