Il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo

«Chi ama il Signore si rallegri in questa festa bella e luminosa!
Il servo fedele entri lieto nella gioia del suo Signore!
Chi ha atteso questo giorno nella penitenza riceva ora la sua ricompensa.
Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il salario che gli è dovuto.
Chi è arrivato dopo la terza ora, sia lieto nel rendere grazie.
Chi è giunto dopo la sesta ora, non dubiti, non avrà alcun danno.
Chi ha tardato fino alla nona ora, venga senza esitare.
Chi è arrivato all’undicesima ora, non creda di essere venuto troppo tardi.
Perché il Signore è buono ed accoglie l’ultimo come il primo.
Concede il riposo all’operaio dell’undicesima ora come a quello della prima ora.
Ha misericordia dell’ultimo e premia il primo.
Al primo dà, all’ultimo regala.
Apprezza le opere di ciascuno, loda ogni intenzione.
Entrate tutti, dunque, nella gioia del nostro Signore;
primi e secondi, ricevete tutti la ricompensa;
ricchi e poveri, danzate insieme;
sia che abbiate digiunato, sia che abbiate fatto festa,
siate tutti nella gioia, onorate questo giorno!
Il banchetto è pronto, godetene tutti!
Il cibo è abbondante, basterà per tutti, nessuno se ne andrà affamato.
Gustate tutti il banchetto della fede.
Gustate tutti la larghezza della bontà.
Nessuno pianga la sua miseria:
il regno di Dio è aperto a tutti. Nessuno tema la morte, perché la morte del Salvatore ci ha liberati.
Dominato dalla morte, egli l’ha spenta.
Il Cristo è risorto e regna la vita!
A lui la gloria e la potenza per i secoli dei secoli. Amen».

(Pseudo Giovanni Crisostomo, Annuncio pasquale della Chiesa orientale)

Il tuo occhio è malvagio, perché io sono buono?

La vigna sono i precetti e i comandi di Dio, il tempo della fatica, la vita presente; gli operai quelli che in modo diverso sono chiamati a compiere i precetti; quelli venuti al mattino, all’ora terza, alla sesta, alla nona e all’undicesima ora sono quelli che sono giunti [alla fede] in età diverse e si sono fatti onore. Ma ciò che è da indagare è se i primi, che si sono splendidamente distinti e sono stati graditi a Dio e che per tutto il giorno hanno brillato per le loro fatiche, si lasciano dominare da quel male estremo della malvagità che è dato dall’invidia e dalla gelosia.
Vedendo infatti che quelli avevano usufruito della stessa ricompensa, dicono: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e del caldo» (Mt 20,12). E sebbene non ricevessero alcun danno e il loro compenso non fosse diminuito, si dispiacevano e si irritavano per i beni altrui, cosa che è propria dell’invidia e della gelosia. E il fatto più importante è che il padrone, che aveva preso le difese di quelli e si era giustificato dinanzi a chi aveva parlato in questi termini, lo condanna per la sua malvagità e la sua estrema invidia, dicendo: «Non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene! Io voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Forse il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?» (Mt 20,13-15). Che cosa si ricava da queste parole? Quella stessa cosa che possiamo vedere anche in altre parabole. Infatti il figlio stimato per la sua buona condotta viene presentato con gli stessi sentimenti quando vede che il fratello dissoluto riceve molti più onori di lui (cfr. Lc 15,28). Come quelli godettero di un bene maggiore ricevendo la ricompensa per primi, così anche quello veniva onorato di più per l’abbondanza dei doni e lo testimonia il figlio dalla buona condotta.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, om. 64,3, PG 58,612-613).

Settanta volte sette

La richiesta di perdono a Dio è credibile se accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno: questa l’unità tra prima lettura e vangelo. Unità che possiamo ribadire con le parole del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello” (Mishnà, Yomà 8,9).
Pietro interroga Gesù sulla misura del perdono nei confronti dell’offesa personale (“se mio fratello pecca contro di me”: Mt 78,27), un’offesa a cui non segue il pentimento né la richiesta di perdono da parte dell’offensore. Nel testo parallelo di Luca si dice invece: “Se tuo fratello peccherà sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: “Mi pento”, tu gli perdonerai” (Lc17,4). In Matteo il perdono è incondizionato, non preparato da alcuna dichiarazione di pentimento. Questo perdono è possibile quando chi è chiamato a perdonare si ricorda del perdono immenso, incommensurabile che ha già ricevuto lui stesso in Cristo. In altre parole: ciascun cristiano si trova, nei confronti del proprio fratello, nella stessa situazione del servo a cui è stato condonato il debito inestinguibile.
Che venga condonato il debito immenso (cfr. Mt 18,27) significa che il perdono non può limitarsi a perdonare ciò che è scusabile, “i peccati veniali”, ma che esso è tale quando perdona ciò che potrebbe sembrare imperdonabile. Perdonare l’imperdonabile: anche questo sta all’interno della misura del perdono cristiano.
Nella parabola evangelica (cfr. Mt 18,23-35) il servo spietato unisce nel suo comportamento cattiveria e stupidità. Che forse è la trascrizione in termini quotidiani della distinzione teologica tra peccati deliberati e peccati per ignoranza. Non è forse anche stupido il servo che, dopo essersi visto condonare un debito immenso, si mostra senza pietà nei confronti dell’uomo che gli doveva una cifra infinitamente inferiore? Spesso il peccato è il frutto della congiunzione di cattiveria e stupidità, di malvagità e ignoranza. O anche: spesso il peccatore, tanto è pericoloso, tanto è ridicolo.
La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nell’unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con l’offensore con un atto di totale gratuità e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdano nel Cristo crocifisso: “Il Giusto, del quale a Pasqua si celebra la resurrezione, è colui che, asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a chi non lo domanda” (Francis Jacques).
Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi misconosce il perdono. È vittoria del bene sul male, è perdono del rifiuto del perdono, è evento pasquale.
Un aspetto non secondario della parabola matteana è la tristezza, il dolore dei compagni di servitù di fronte all’agire malvagio del servo che non ha pietà di colui che gli deve cento denari (v. 31). Lì non c’è spazio per il linguaggio del perdono, ma solo per lo sdegno e l’indignazione, per la ribellione di fronte all’ingiustizia che diviene coraggio della denuncia.
Vi è una giustizia del perdono che interviene quando il rapporto da bilaterale si apre a un terzo, come nel caso della parabola. Che il perdonato non perdoni a sua volta è un’ingiustizia che suscita la collera (v. 34), non la misericordia (v. 27). Se posso perdonare infinite volte il peccato contro di me, non ho l’autorità di perdonare il male che un altro fa a un terzo.

Dipende dalle mani

Un pallone da basket nelle mie mani vale 20 euro nelle mani di Michael Jordan vale circa 30 milioni di euro… dipende dalle mani in cui si trova.
Un bastone nelle mie mani mi accompagna in montagna, un bastone nelle mani di Mosè divise il Mar Rosso.… dipende dalle mani in cui si trova.
Una fionda nelle mie mani è poco più di un giocattolo, una fionda nelle mani di Davide abbattè Golia.… dipende dalle mani in cui si trova.
Due pesci e cinque pani nelle mie mani sono una buona merenda due pesci e cinque pani nelle mani di Dio sfamarono una moltitudine di persone.… dipende dalle mani in cui si trovano.
I chiodi nelle mie mani possono produrre solo dolore, nelle mani di Gesù Cristo hanno prodotto salvezza per il mondo intero.… dipende dalle mani in cui si trovano.
Come vedi, tutto dipende dalle mani in cui gli oggetti si trovano.
Allora, metti i tuoi ragionamenti, le tue preoccupazioni, le tue paure, le tue speranze, i tuoi sogni, la tua famiglia e i tuoi rapporti con gli altri, tutto, nelle mani di Dio perché…
tutto dipende dalle mani in cui si trovano.
Siamo nelle mani di Dio e lì siamo al sicuro.

L’obbedienza alla parola di Dio

L’obbedienza alla parola di Dio conduce il profeta a denunciare le ingiustizie e le violenze che si commettono all’interno del popolo di Dio e ad incontrare così opposizione, emarginazione, derisione da parte di coloro a cui profetizza (prima lettura); la sequela di Gesù immette il discepolo in un cammino segnato dall’assunzione della croce e il cui orizzonte è la perdita della vita (vangelo).
L’esperienza spirituale di Geremia, dopo l’entusiasmo dell’adesione al Signore e la dolcezza e la bellezza sperimentate nei momenti iniziali della chiamata, quando la parola del Signore fu per lui «la gioia e la letizia del suo cuore» (cfr. Ger 15,16), è divenuta, col passare degli anni e lo svolgersi del suo ministero profetico, esperienza di amarezza e di sofferenza. Il profeta si sente ingannato da Dio: fu vera vocazione? O si trattò di un abbaglio? Di un inganno? Dio lo ha chiamato o violentato? Al cuore della crisi, in cui il profeta è tentato di abbandonare il ministero ricevuto («Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!»: Ger 20,9), Geremia trova il rinnovamento e la conferma della vocazione nel più profondo di sé stesso, nel cuore ancora infiammato dalla parola di Dio. Se il Signore è una passione, allora anche la crisi sarà un momento di verità della fede e della vocazione. Il Signore come passione: questa è la sfida per i cristiani oggi.
Pietro, Cefa, la «roccia», colui che è chiamato a confermare nella fede i fratelli (cfr. Lc 22,32), a cui il Signore ha affidato un compito basilare nella chiesa (Mt 16,18), può divenire «scandalo», cioè pietra di inciampo nel cammino di fede. Gesù addirittura lo rimprovera duramente apostrofandolo come «satana» (Mt 16,23). E questo avviene quando Pietro esce dalla sequela per mettersi davanti a Gesù e fargli la lezione. Allora egli dimostra di non sentire e di non pensare secondo Dio, ma in modo mondano.
Così la beatitudine rivolta da Gesù a Pietro in Mt 16,17 viene non certo annullata, ma ridimensionata da questo rimprovero che situa Pietro in una luce molto realistica. Unico è il fondamento della chiesa: Gesù Cristo (1Cor 3,11; 1Pt 2,4-5). Il servizio di Pietro è al servizio di questa unicità.
La croce è sempre scandalo: solo integrando lo scandalo della croce nel nostro cammino di fede, possiamo evitare di divenire noi stessi motivo di scandalo per il vangelo e di scandalizzarci noi del Messia crocifisso (cfr. Mt 26,31: «Tutti voi vi scandalizzerete di me in questa notte»). Pietro, nella sua ribellione alla croce di Gesù, esprime l’atteggiamento di repulsione che spesso è anche nostro e che ci porta a confessare rettamente la fede e a smentire tale confessione nella prassi. La croce è l’elemento più radicalmente estraneo al «mondo»: il Pietro che vi si ribella mostra il suo conformismo mondano, il suo essere conforme ai parametri e ai criteri della mondanità, il suo pensare e sentire in modo conforme agli uomini e non secondo Dio.
Le parole di Gesù al discepolo parlano della perdita di sé necessaria per essere in contatto con il proprio vero sé (Mt 16,24-26). C’è un rinnegamento di sé, uno smettere di conoscere se stessi, un uscire da una vita autocentrata, dalla ricerca di autogiustificazioni, che consente al discepolo di trovare, come dono, e di essere raggiunto, per grazia, dalla vera vita. Si tratta del passaggio pasquale dalla vita come possesso e come potere, alla vita come dono e come grazia. È la vita vissuta in Cristo e per Cristo, è la vita di Cristo in noi: «Chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 6,25).
«Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?» (Mt 16,26). Il testo intravede la situazione di uomini tutti tesi a possedere, a estendere il proprio agire e il proprio accumulare al di fuori di sé, di fatto fallendo la propria vita, perdendo se stessi. Forse, tutti estroversi proprio per non incontrare se stessi, per non entrare nel doloroso faccia a faccia con se stessi.
Seguire Cristo significa porre la propria vita nella sua vita per amore. Ciò che per amore si perde, in realtà non è perso, ma donato. E ciò che è donato per amore, è ritrovato nella relazione.