«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11)

«[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, con-dannando in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che na-sce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?
In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita».

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla spianata di Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecesso-re, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

Lo Spirito di Dio

Senza lo Spirito Santo, se, cioè, lo Spirito non ci plasma interiormente e noi non ricorriamo a lui abitualmente, praticamente può darsi che camminiamo al passo di Gesù Cri-sto, ma non con il suo cuore. Lo Spirito ci rende conformi nell’intimo al vangelo di Gesù Cristo e ci rende capaci di annunziarlo esternamente (con la vita). Il vento del Signore, lo Spirito Santo, passa su di noi e deve imprimere ai nostri atti un certo dinamismo che gli è proprio, uno stimolo cui la nostra volontà non rimane estranea, ma che la trascende. Dio ci donerà lo Spirito Santo nella misura in cui accoglieremo la Parola, ovunque la sentiremo.
Dovrebbe esserci in noi una sola realtà, una sola verità, uno Spirito onnipotente che si impossessi di tutta la nostra vita, per agire in essa, secondo le circostanze, come spirito di carità, spinto di pazienza, spirito di dolcezza, ma che è l’unico Spirito, lo Spirito di Dio. Tutti i nostri atti dovrebbero essere la continuazione di una medesima incarnazione. Bi-sognerebbe che consegnassimo tutte le nostre azioni allo Spirito che è in noi, in modo tale che si possa riconoscere in ciascuna di esse il suo volto. Lo Spirito non chiede che questo. Non è venuto in noi per riposarsi; egli è infaticabile, insaziabile nell’agire; una sola cosa può impedirglielo: il fatto che noi, con la nostra cattiva volontà, non glielo permettiamo, oppure non gli accordiamo abbastanza fiducia e non siamo fino in fondo convinti che egli ha una sola cosa da fare: agire. Se lo lasciassimo fare, lo Spirito sarebbe assolutamente in-stancabile e di tutto si servirebbe. Basta un nulla a spegnere un focherello, mentre un fuoco avvampante consuma ogni cosa. Se noi fossimo gente di fede, potremmo consegnare allo Spirito tutte le azioni della giornata, qualunque siano: le trasformerebbe in vita.

(M. DELBRÊL, Indivisibile amore. Frammenti di lettere, Casale Monferrato, 1994, 43-45, pas-sim).

Ama con umiltà e rispetto

La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.

(Thomas Merton).

Vi do un comandamento nuovo

Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].
E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imi-tate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).

Mio Signore e mio Dio!

Tommaso, uno dei discepoli, non era forse un uomo, uno come tanti? Gli altri discepoli gli dicevano: Abbiamo visto il Signore, ma lui ribatteva: Se non lo toccherò, se non metterò il dito nel suo fianco, non crederò (Gv 20,25). Te lo annunziano dei messaggeri dell’evangelo e tu non credi? A loro ha creduto il mondo e il discepolo non crede. Di loro è stato detto: II loro messaggio si è diffuso su tutta la terra e le loro parole fino ai confini del mondo [Sal 18 (19),5]. Dalla loro bocca escono parole che giungono fino ai confini del mondo e tutto il mondo crede; tutti insieme annunciano la buona notizia a uno solo e questi non crede. Non era ancora il giorno fatto dal Signore [Sal 117 (118),24]; le tenebre erano ancora sull’abisso; nelle profondità del cuore umano c’erano le tenebre. Ma venga lui, il capo di quel giorno e gli dica con pazienza e mitezza, non con ira, perché egli è medico: «Vieni, vieni, tocca, e credi. Tu hai detto: Se non toccherò, se non metterò il mio dito, non crederò. Vieni, tocca, metti il dito. E non essere incredulo, ma credente. Vieni, metti il dito. Conoscevo le tue ferite; per te ho conservato la mia cicatrice». E Tommaso mettendo la mano raggiunse la pienezza della fede. E qual è questa pienezza? Che Cristo non venga creduto soltanto uomo, né soltanto Dio, ma uomo e Dio. Questa è la pienezza della fede, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi (Gv 1,14). E quel discepolo, dopo che gli furono presentate le cicatrici e le membra del suo Salvatore perché le toccasse, non appena le ebbe toccate, esclamò: Mio Signore e mio Dio (Gv 20,28). Toccò l’umanità, riconobbe la divinità; toccò la carne, volse gli occhi al Verbo, poiché il Verbo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi. Il Verbo ha sopportato che la sua carne fosse appesa al legno, che fosse fissata coi chiodi, che venisse trafitta dalla lancia, che fosse deposta nel sepolcro. Lo stesso Verbo risuscitò la sua carne, la presentò agli occhi dei discepoli perché la vedessero, la fece toccare con mani. Toccano ed esclamano: Mio Signore e mio Dio!

(AGOSTINO, Discorsi 258, 3, in Opere di sant’Agostino 32/2, pp. 826-828).