Quel rischio di una fede dal «cuore lontano» piegata all’esteriorità  

Si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate (…), quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me (…)”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «(…) Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro (…)». E diceva ai suoi discepoli: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male (…)».
Gesù viveva le situazioni di frontiera della vita, incontrava le persone là dov’erano e attraversava con loro i territori della malattia e della sofferenza: dove giungeva, in villaggi o città o campagne, gli portavano i malati e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccavano venivano salvati (Mc 6,56). Da qui veniva Gesù, portando negli occhi il dolore dei corpi e delle anime, e insieme l’esultanza incontenibile dei guariti. Ora farisei e scribi lo provocano su delle piccolezze: mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti! Si capisce come la replica di Gesù sia decisa e insieme piena di sofferenza: Ipocriti! Voi avete il cuore lontano! Lontano da Dio e dall’uomo.
Il grande pericolo, per i credenti di ogni tempo, è di vivere una religione dal «cuore lontano», fatta di pratiche esteriori, di formule recitate solo con le labbra; di compiacersi dell’incenso, della musica, della bellezza delle liturgie, ma non soccorrere gli orfani e le vedove (Giacomo 1,27, II lettura). Il pericolo del cuore di pietra, indurito, del «cuore lontano» da Dio e dai poveri è quello che Gesù più teme.
Il vero peccato per Gesù è innanzitutto il rifiuto di partecipare al dolore dell’altro» (J. B. Metz), e l’ipocrisia di un rapporto solo esteriore con Dio. Lui propone il ritorno al cuore, per una religione dell’interiorità. Non c’è nulla fuori dall’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, sono invece le cose che escono dal cuore dell’uomo… Gesù scardina ogni pregiudizio circa il puro e l’impuro, quei pregiudizi così duri a morire. Ogni cosa è pura: il cielo, la terra, ogni cibo, il corpo dell’uomo e della donna. Come è scritto: «Dio vide e tutto era cosa buona». Gesù benedice di nuovo le cose, compresa la sessualità umana, che noi associamo subito al concetto di purezza e impurità, e attribuisce al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.
Il messaggio festoso di Gesù, così attuale, è che il mondo è buono, che le cose tutte sono buone, che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che devi custodire invece con ogni cura il tuo cuore perché è la fonte della vita. Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale, che lui chiama «tradizione di uomini». Libero e nuovo ritorni il Vangelo, liberante e rinnovatore. Che respiro di libertà con Gesù! Apri il Vangelo ed è come una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, ovvii discorsi. Scorri il Vangelo e ti sfiora il tocco di una perenne freschezza, un vento creatore che ti rigenera, perché sei arrivato, sei ritornato al cuore felice della vita.

(Ermes Ronchi)

Per grazia di Dio sono cristiano

“Per grazia di Dio sono cristiano, per le mie azioni un grande peccatore, per condizione un pellegrino senza di¬mora e del genere più umile, che vaga da un luogo all’altro. Tutti i miei averi consistono in una bisaccia di pan secco sulle spalle, e la Sacra Bibbia sotto la camicia. Nient’altro. Durante la ventiquattresima settimana dopo il giorno della Trinità entrai in chiesa durante la liturgia per pregare un pò; stavano leggendo la pericope della lettera ai Tessalonicesi di san Paolo, in cui si dice: «Pregate incessantemente» (1Ts 5,17). Questa massima mi si fissò particolarmente nella mente, e incominciai dunque a riflettere: come si può pregare incessantemente, quando per ogni uomo è inevitabile e necessario impegnarsi anche in altre faccende per procurarsi il sostentamento? Mi rivolsi alla Bibbia e vi lessi con i miei occhi quello che avevo udito, e cioè che bisogna pregare «incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,18), pregare «alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese» (1Tm 2,8). Pensavo e pensavo, ma non sapevo che cosa decidere. «Che fare?», riflettevo. «Dove trovare qualcuno che possa spiegarmelo? Andrò per le chiese dove parlano celebri predicatori, forse sentirò qualcosa di convincente». E andai. Udii molte prediche eccellenti sulla preghiera. Ma erano tutti insegnamenti sulla preghiera in genere: che cos’è la preghiera, com’è necessario pregare, quali sono i suoi frutti; ma nessuno diceva come progredire nella preghiera.

Racconti di un pellegrino russo

Male e bene nella Chiesa

Mentre porta questo amaro peso, gli può essere di conforto il riflettere che non soltanto il male rimane impresso nella memoria più del bene, ma che il mondo non può vedere, o solo molto indirettamente, il bene cristiano. Chi può contare e ponderare gli atti nascosti di autodominio, con cui il male viene impedito? Chi, gli atti di disinteressata penitenza e carità? Chi, la portata di ardenti preghiere segrete? Chi, all’infuori di Dio, conosce le esperienze dei santi che, portati attraverso il cielo e l’inferno, dai posti più nascosti sollevano dai cardini interi campi della storia, spostano montagne intere di colpa, ed in situazioni senza scampo hanno aperto un varco? Ciò sia detto qui solo di passaggio e sottovoce per ricordare che il passivo della Chiesa non si può chiudere senza questo attivo.

H.U.von Balthasar, Chi è il cristiano?

Non separatevi dal corpo di Cristo

«Ma Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano di questo […]» (Gv 6,61). Essi avevano parlato tra loro in modo da non farsi sentire da lui; ma egli, che li conosceva nell’intimo, ascoltandoli dentro di sé, rispose e disse: Ciò vi scandalizza? Cioè, vi scandalizza il fatto che io abbia detto che vi dò da mangiare la mia carne e da bere il mio sangue? E questo che vi scandalizza? «E se vedeste il Figlio dell’uomo ascendere dov’era prima?» (Gv 6,62-63). Che significano queste parole? Risolvono la loro difficoltà? Sciolgono il dubbio che li ha scandalizzati? Queste parole certamente avrebbero chiarito, se essi le avessero comprese. Credevano che egli volesse dare loro in cibo il suo corpo; egli dice che salirà in cielo, e vi salirà tutto intero: «Se vedrete il Figlio dell’uomo ascende-re dov’era prima», allora crederete che egli non distribuisce il suo corpo nel modo che voi credete: almeno allora capirete che la sua grazia non si consuma mangiando. […]
Che significano le parole che seguono: «È lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla?». Egli ci consente di rivolgerci a lui, non per contraddirlo ma nel desiderio di apprendere: O Signore, maestro buono, come è possibile che la carne non giovi a nulla, quando tu hai dichiarato: «Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà in sé la vita» (Gv 6,54)? Forse che la vita non serve a nulla? E perché allora siamo ciò che siamo, se non per avere la vita eterna, che tu prometti di darci mediante la tua carne? In che senso allora «la carne non giova a nulla»? Non giova a nulla la carne nel senso in cui costoro la intesero; essi la intesero nel senso di carne morta, non nel senso di carne re-sa viva dallo Spirito. […] Se infatti la carne non giovasse a nulla, il Verbo non si sarebbe fatto carne per abitare tra noi. Se tanto ci ha giovato il Cristo, mediante la carne, come si può dire che la carne non giova a nulla? Ma è lo Spirito che mediante la carne ha operato la nostra salvezza. La carne fu come il vaso: considera ciò che portava, non ciò che era. […] Perciò dice: «Le parole che vi ho detto sono spirito e sono vita» (Gv 6,64). Abbiamo già detto, o fratelli, che cosa ci raccomanda il Signore nel darci da mangiare la sua carne e da bere il suo sangue: che noi dimoriamo in lui e lui in noi. Ora, noi dimoriamo in lui, se siamo le sue membra; egli dimora in noi, se siamo il suo tempio. È l’unità che ci compagi-na facendoci diventare membra di Cristo. Ma che cos’è quest’unità se non la carità? […]
Niente deve temere un cristiano, quanto l’essere separato dal corpo di Cristo. Chi infatti si separa dal corpo di Cristo non è più suo membro; se non è suo membro, non può es-sere animato dal suo Spirito. «Che se qualcuno, dice l’Apostolo, non possiede lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (Rm 8,9).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 27,3.5-6, NBA XXIV pp.620.622.624).

Lavoro o altro?

Se l’uomo valesse per il lavoro che fa, allora una centrale termonucleare, vale più di tutti i Dante, Leonardo, Manzoni, di tutte le epoche anche se vivessero ciascuno mille anni. Questa è civiltà: liberare l’uomo dalla servitù del lavoro, per schiudergli le ali allo scintillante gaudio del suo spirito operante in comunione con la sua natura fisica. L’uomo è fatto per contemplare.
Contemplare, ammirare, meditare, stupirsi e riflettere, ascoltare il sussurro della natura, abbracciarne le melodie, intendere la voce di un cuore che ama, effondersi nella preghiera e nello sguardo di Dio: questo è l’uomo.
Scopritore, analista, poeta, scienziato, filosofo, innamorato, padre, sognatore, spiritoso, ridente, lacrimante, fatto di sospiri e di gaudi, di dedizione e di eroismo, di sintesi e intuiti, di gioco e di letizia, di elevazione, di nobiltà, socievole e amante, generoso felice santo: ecco l’uomo.
Perché il lavoro dovrebbe essere il criterio della distribuzione della felicità fra le creature? Non l’uomo lavorante, ma la persona operante nella comunione delle altre personalità per il vero bene proprio e degli altri, è il fondamento della società.

Enrico Medi, scienziato, Il mondo come lo vedo io