Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero
che non mi seduce con un miracolo
e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,
che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,
che non accetta compromessi,
ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,
che non rimette a posto le cose dall’alto,
che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire,
che al mio no risponde con un bacio silenzioso,
credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io,
che non soddisfa i miei bisogni,
che non dice e fa quello che voglio io,
un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero,
che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,
che si fa piccolo, debole indifeso
perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino
perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,
credo in un Dio che mi si fa vicino,
che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).

Abitare nella casa dell’amore

Questa è una singolare metafora dell’amore. L’amore non è soltanto un sentimento passeggero. È uno spazio in cui si può rimanere. Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio. Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri. Altrimenti ristagna. E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.
L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà. È puro dono. A un amore del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.
Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore. Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo. Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più. E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso. Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile. Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.
(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).

Se questo è lavoro

Oggi è la festa dei lavoratori, di tutti i lavoratori. È anche la festa del lavoro. Ma non è la festa di tutto il lavoro, perché non tutto il lavoro né tutti i lavori meritano di essere festeggiati. Il lavoro senza aggettivi qualificativi non parla abbastanza per dirci se merita o no la nostra festa.
Anche il ‘figliol prodigò trovò un lavoro dopo aver sperperato tutte le sue sostanze, ma pur lavorando come guardiano di porci non riusciva a sfamarsi. Il suo non era un lavoro degno né decente, come non lo erano la maggior parte dei lavori dall’antichità fino a tempi molto recenti, e come non lo sono molti lavori che pur continuiamo a fare. Per questa ragione il primo maggio è anche la memoria delle molte battaglie civili e politiche combattute per rendere il lavoro un’attività umana degna, e quindi per eliminare quelle condizioni di lavoro e quei lavori che somigliavano (e somigliano) troppo alla schiavitù e alla servitù. Per ricordarci quindi che il lavoro è prima di tutto una questione politica, sociale, che ha a che fare con le relazioni di potere (parola cancellata dal vocabolario del capitalismo del XXI secolo), e che quando diventa una faccenda individuale, un contratto come tutti gli altri, perdiamo secoli di civiltà e di riequilibrio dei rapporti di forza. La storia delle civiltà è anche una ‘distruzione creatrice’ di lavoro: lavori indegni sostituiti da lavori più degni.
Molti lavoratori in lavori indegni oggi non fanno festa perché ricattati da padroni spietati o dai loro bisogni primari. E non possiamo, moralisticamente, pretendere che chi si trova, incatenato, dentro tali lavori indegni debba porsi la domanda sulla dignità del proprio lavoro e poi agire di conseguenza lasciandoli. Queste domande sono lussi che chi deve sfamare se stesso e i propri figli non può quasi mai permettersi. Anche perché le nostre coscienze sono plasmate dalle condizioni materiali e sociali nelle quali viviamo, e condizioni di vita non degne ci impediscono in genere di prendere coscienza della non-dignità del nostro lavoro. Saranno allora sempre troppo pochi i lavoratori in lavori indegni capaci di licenziarsi mettendo a repentaglio la propria vita e quella della propria famiglia. Ecco perché la qualità morale e civile di un popolo si misura dalla sua capacità di non costringere i singoli lavoratori a dover scegliere tra coscienza e pane, di non lasciarli soli nei loro inferni a confidare solo nel proprio eroismo etico individuale.
I popoli civili combattono i lavori incivili a livello civile e politico. Oggi nel mondo intero e anche nel nostro Paese ci sono molti, troppi, lavoratori in lavori sbagliati e incivili – nelle sale gioco, in tanti mestieri delle armi, i molti ‘guardiani’ di porci e di porcili –, che sono aumentati durante questi dieci anni di crisi (le gravi e lunghe crisi riducono i lavori degni e aumentano quelli indegni). Questi lavoratori sono veramente poveri, di reddito ma anche di libertà, perché la prima forma di povertà, ce lo ricorda Amartya Sen, è la mancanza di libertà di poter fare la vita che amiamo fare. Moltissimi lavoratori non amano il loro lavoro indegno, ma non si trovano nella condizione di libertà per poterlo lasciare. Ci vorrebbe una nuova coscienza collettiva, più attenta al lavoro e alla sua dignità, per riscattarli dalle loro schiavitù. Ma è proprio questo tipo di coscienza civile sul lavoro e del lavoro che più ci manca nel tempo della globalizzazione dei mercati e dell’indifferenza.
Siamo circondati dal lavoro umano, ma lo ‘vediamo’ troppo poco, perché civilmente ed eticamente siamo distratti o miopi. Il lavoro è il principale ambiente dove si svolge la nostra esistenza, dal primo giorno all’ultimo. Non sempre però siamo sufficientemente attenti alla qualità morale e alla natura etica di questo lavoro.
Dedichiamo una sempre maggiore cura alle etichette dei prodotti alimentari e cosmetici per conoscerne calorie e proprietà chimiche, ma siamo meno interessati oggi di trenta anni fa alle ‘etichette morali’ delle merci, agli ‘zuccheri di giustizia’ e alle ‘calorie etiche’. Negli ultimi tre decenni ci siamo troppo velocemente lasciati convincere che la democrazia avesse poco a che fare con le merci e con i mercati. Abbiamo creduto a chi ci diceva che le tecniche e gli strumenti potessero gestire l’economia. E così, non consentendo alla democrazia di entrare dentro fabbriche, uffici, banche, supermercati e shopping on-line, le abbiamo ridotto progressivamente lo spazio, fino a renderlo infimo. I diritti e libertà sono anche e soprattutto quelli dei lavoratori dei vestiti che portiamo, dei contadini della frutta e dei pomodori che mangiamo, dei soldati delle guerre dietro al petrolio (e presto all’acqua) che consumiamo.
Dobbiamo iniziare a guardare diversamente il lavoro nostro e quello degli altri, per imparare a rivolgere al lavoro domande nuove, più civili, più politiche, più etiche. E a non accontentarsi delle risposte troppo facili. L’umanità è cresciuta tutte le volte che qualcuno ha iniziato a fare domande nuove alle persone e alle cose, e ha saputo farle diventare domande collettive. Queste domande collettive hanno poi generato risposte, che quando erano banali sono state rinviate al mittente. Finché, qualche volta e magari secoli dopo il giorno della prima domanda, ci hanno convinto, e subito hanno generato nuove domande. Oggi è la festa di tutti i lavoratori, quindi è anche la festa dei lavoratori di lavori indegni, perché l’indegnità di un lavoro non sempre rende indegni i suoi lavoratori. E perché ogni giorno azioni belle e luminose riescono a rischiarare, per qualche attimo, il buio di molti lavori pessimi. Anche ad Auschwitz, ce lo ricorderà per sempre Primo Levi, un muratore fu capace di fare un muro dritto. La persona è più grande del suo lavoro, sempre e di ogni lavoro. Soprattutto è più grande e degna di quello che non ha scelto ma ha subìto solo per non morire.

Luigino Bruni, Editoriale del quotidiano Avvenire, martedì 01 maggio 2018

Noi tralci, Lui la vite: siamo della stessa pianta di Cristo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio: io e lui la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Lui in me e io in lui, come figlio nella madre. E il mio padre è il vignaiolo: Dio raccontato con le parole semplici della vita e del lavoro. Un Dio che mi lavora, si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma le cesoie, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. Per farmi portare sempre più frutto.
E poi una novità assoluta: mentre nei profeti e nei salmi del Primo Testamento, Dio era descritto come il padrone della vigna, contadino operoso, vendemmiatore attento, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io sono la vite, voi siete i tralci. Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come una goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria. Con l’Incarnazione di Gesù, Dio che si innesta nell’umanità e in me, è accaduta una cosa straordinaria: il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio si è fatto argilla, il Creatore creatura. La vite-Gesù spinge la linfa in tutti i miei tralci e fa circolare forza divina per ogni mia fibra. Succhio da lui vita dolcissima e forte. Dio che mi sei intimo, che mi scorri dentro, tu mi vuoi sempre più vivo e più fecondo di gesti d’amore… Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte? Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, inviare mali o sofferenze, bensì dare forza, qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Questo vuole per me il Dio vignaiolo: «Portare frutto è simbolo del possedere la vita divina» (Brown).
Dio opera per l’incremento, per l’intensificazione di tutto ciò che di più bello e promettente abita in noi. Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima gemma. Noi portiamo un tesoro nei nostri vasi d’argilla, un tesoro divino: c’è un amore che sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tutte le esistenze, un amore che sale in me e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Se noi sapessimo quale energia c’è nella creatura umana! Abbiamo dentro una vita che viene da prima di noi e va oltre noi. Viene da Dio, radice del vivere, che ripete a ogni piccolo tralcio: Ho bisogno di te per grappoli profumati e dolci; di te per una vendemmia di sole e di miele.

(Ermes Ronchi)

La pace sia con voi!

Di ritorno dagli inferi, Cristo per donare la pace al mondo esclama: «La pace sia con voi! I discepoli parlavano ancora, quando Gesù stette in mezzo a loro e disse loro: La pace sia con voi!». Giustamente dice: «con voi», perché la terra si era già consolidata, il giorno era ritornato, il sole aveva ripreso il suo splendore e il mondo aveva ritrovato il suo ordine e la coesione. Ma presso i discepoli la guerra infuriava ancora; fede e mancanza di fede si combattevano violentemente. Il turbamento della passione non aveva scosso il loro cuore quanto la terra; credulità e incredulità devastavano il loro animo con una guerra senza tregua; schiere di pensieri assediavano la loro mente e sotto i colpi della disperazione e della speranza il loro cuore si spezzava, nonostante la sua forza. I sentimenti e i pensieri dei discepoli erano divisi tra gli innumerevoli miracoli che rivelano Cristo e le molteplici umiliazioni della sua morte, tra i segni della sua divinità e le debolezze della carne, tra l’orrore della sua morte e le grazie della sua vita. Ora il loro spirito veniva portato in cielo, ora le loro anime ricadevano a terra; e nel loro cuore in cui infuriava la tempesta non trovavano alcun porto tranquillo, nessun luogo di pace. Al veder questo, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, governa le tempeste e con un semplice segno muta la tempesta in un cielo sereno, li conferma con la sua pace, dicendo: «La pace sia con voi! Sono io; non temete. Sono io, il morto e sepolto. Sono io. Per me Dio, per voi uomo. Sono io. Non uno spirito rivestito di un corpo, ma verità stessa fatta uomo. Sono io. Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi. Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto. Gli inferi mi hanno proclamato Dio, nel loro spavento. Non temere Pietro, che mi hai rinnegato, ne tu, Giovanni, che sei fuggito, ne tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vede-te. Non temete, sono io. Sono io, vi ho chiamati per grazia, vi ho scelti perdonandovi, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore e oggi vi accolgo per mia sola bontà, perché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 81, PL 52, 428A-D).