Gesù entra a porte chiuse. Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta. […] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio. […] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo. Egli entra a porte chiuse. Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo. Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri discepoli. Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi. L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito. «I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice. Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.
Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi. Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò. Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito. Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco. Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui. I vostri racconti esasperano la mia impazienza. La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento. Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce». Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo. Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa. Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione. Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso. «Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice. Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora. Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi. Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza. «Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente». Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29). Tommaso, porta la buona notizia della mia re-surrezione a quelli che non hanno veduto. Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola. Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi. Annunciami: crederanno e mi adoreranno. Non esige-ranno altre prove. Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede. In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».
(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).
Categoria: Riflessioni
Dov’è il Signore?
Al cuore delle letture del giorno di Pasqua vi è l’annuncio e l’esperienza della resurrezione. La scoperta della tomba vuota conduce Maria di Magdala a darne la notizia a Pietro e al discepolo amato: quest’ultimo, entrato nel sepolcro, “vide e credette”. È l’inizio della fede pasquale (vangelo). Da quel primo giorno della settimana la resurrezione di Gesù diviene evento di parola, diviene annuncio, anzi è la parola per eccellenza che la chiesa è chiamata ad annunciare e a testimoniare, come fa Pietro nel suo discorso riportato dagli Atti (I lettura). La resurrezione di Gesù coinvolge il credente facendo del battezzato un uomo partecipe del mistero pasquale e la cui vita è ormai nascosta con Cristo in Dio (II lettura). Dove cercare il Signore? Dov’è il Signore? Questa la domanda che le parole preoccupate di Maria di Magdala suscitano in noi: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto” (Gv 20,2). Qual è il luogo, il dove, del Signore? Maria è ancora “nel buio” (Gv 20,1), deve ancora avvenire il suo passaggio verso il chiarore della fede, verso la luce della visione chiara. Per ora la ricerca di Maria è a tentoni e – non ancora illuminata dalla fede – si risolve in una incomprensione dell’evento: Ma-ria pensa a un trafugamento del cadavere. C’è una relazione affettiva, umana, umanissima con il Signore che non è sufficiente per cogliere l’interezza del mistero.
La fede non è riducibile a una pura dimensione affettiva. Il testo sottolinea l’importanza del vedere da parte dei personaggi che giungono alla tomba. Maria vede la pietra ribaltata dal sepolcro e corre da Pietro e dal discepolo amato; quest’ultimo, nella corsa insieme con Pietro, giunge per primo al sepolcro e vede le bende, ma non entra; Pietro entra nel sepolcro e vede con precisione tutto ciò che vi è: bende, sudario piegato e riposto in un luogo a parte. Ma anche questo sguardo constatativo, razionale, preciso, completo, non basta a cogliere il mistero. Solo il discepolo amato, dopo aver rispettosamente atteso Pietro e aver lasciato che per primo entrasse nel sepolcro chi godeva di un primato nel gruppo dei Dodici, “entrò … e vide e credette”. Il discepolo amato non vede alcun oggetto specifico: è l’assenza stessa che diviene per lui evocatrice di una Presenza. La sua visione è animata dall’intuizione spirituale che gli consente di iniziare un processo che giungerà alla pienezza della fede. Ma per il salto della fede, dunque per vedere la vita nel luogo della morte, occorre credere alla testimonianza delle Scritture (cf. Gv 20,9).
Di Gesù restano solo i segni del corpo morto e assente, sicché il sepolcro (mnemeîon in greco: lett. “memoriale”) è memoria immota, cimiteriale, morta. La Scrittura, che sempre è segno di un’assenza (lo scritto rimpiazza la presenza), è invece memoriale di un vivente e memoria vivificante: accostata al vuoto della tomba essa la riempie di una parola che è all’origine della resurrezione perché è la parola stessa del Dio della vita. Cercare colui che è assente, vedere colui che non è visibile, trovare colui che non ha un luogo identificabile: questi sono gli elementi che caratterizzano la ricerca del Signore anche oggi. L’assenza di Dio da motivo di lamento deve passare a condizione di ricerca. Da fuggire è la pretesa di sapere o di stabilire con certezza dove sia il Cristo, dove sia da cercare e dove no. Fuga da attuarsi in obbedienza alle parole di Gesù: “Se qualcuno vi dirà: ‘Ecco, il Cristo è qui, ecco è là’, non ci credete” (Mc 13,21). È un preciso invito alla non-fede che Gesù fa. Non-fede necessaria alla fede nel Risorto. E occorre non credere a chi vuole dare visibilità a Cristo dicendo: “Sono io” (Mc 13,5). “Non in modo osservabile” viene il Regno, e nessuno può dire “Eccolo qui, eccolo là” (Lc 17,21). Pretendere di individuare e circoscrivere il luogo del Risorto è operazione idolatrica, fatta dai manipolatori del religioso, che non sopportano l’insicurezza e la fatica della ricerca a cui obbliga il non est hic (“non è qui”: Mc 16,6).
(Luciano Manicardi)
Santa Maria della Speranza
La Chiesa celebra in primo luogo l’opera di Dio nel mistero pasquale di Cristo, e in esso trova la Madre intimamente congiunta con il Figlio: nella passione del Figlio, infatti, la beata Vergine «soffrì profondamente con il suo Unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, consentendo amorosamente all’immolazione della vittima da lei generata»11; nella sua risurrezione fu ricolma di gioia ineffabile; dopo la sua ascensione al cielo, unita in preghiera con gli Apostoli ed i primi discepoli nel Cenacolo, implorò «il dono dello Spirito, che l’aveva già adombrata nell’annunciazione».
Venerdì Santo
Venerdì Santo: giorno della croce, giorno di sofferenza, giorno di speranza, giorno di abbandono, giorno di vittoria, giorno di mestizia, giorno di gioia, giorno di conclusione, giorno di inizio.
Durante la liturgia a Trosly, Père Thomas e Père Gilbert staccarono dalla parete l’enorme croce che sta appesa dietro l’altare e la tennero sollevata, così che tutta la comunità poté andare a baciare il corpo morto di Cristo. Vennero tutti, più di quattrocento persone – uomini e donne disabili con i loro assistenti e amici. Tutti apparivano consapevoli di quello stavano facendo: esprimere il loro amore e la loro gratitudine per colui che aveva dato la propria vita per loro. Mentre stavano tutti radunati attorno alla croce e baciavano i piedi e la testa di Gesù, chiusi gli occhi e vidi il suo sacro corpo disteso e crocifisso sul nostro pianeta terra. Vidi l’immensa sofferenza dell’umanità lungo i secoli: persone che si uccidono a vicenda, persone che muoiono di fame o di malattia; persone cacciate dalle proprie case; persone che dormono nelle strade delle grandi città; persone che si attaccano le une alle altre nella disperazione; persone flagellate, torturate, bruciate e mutilate; persone isolate in appartamenti chiusi, in prigioni sotterranee, nei campi di lavori forzati; persone che implorano una parola dolce, una lettera amichevole, un abbraccio consolante, persone… che gridano tutte con voce angosciata: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Immaginando il corpo di Gesù nudo e lacerato, disteso sul nostro globo, mi sentivo pieno di orrore. Ma non appena aprii gli occhi, vidi Jacques, che porta sul volto i segni della sua sofferenza, mentre baciava il corpo con passione e le lacrime gli scendevano da-gli occhi. Vidi Ivan, trasportato a spalle da Michael. Vidi Edith che avanzava nella sua se-dia a rotelle. Man mano che venivano – diritti o claudicanti, vedenti o ciechi, udenti o sordi – vedevo l’interminabile processione dell’umanità che si radunava attorno al sacro corpo di Gesù coprendolo di lacrime e di baci, per poi allontanarsene lentamente, confortata e consolata da un così grande amore… Con gli occhi della mia mente vidi l’immensa folla di isolati, di individui angosciati che si allontanavano insieme dalla croce, uniti dall’amore che essi avevano visto con i loro stessi occhi e toccato con le loro stesse labbra. La croce dell’orrore divenne la croce della speranza, il corpo torturato divenne il corpo che da nuova vita; le ferite aperte diventarono fonte di perdono, di guarigione e di riconciliazione.
O mio Signore, che cosa ti posso dire?
Ci sono forse parole
che possono uscire dalla mia bocca?
Qualche pensiero? Qualche frase?
Tu sei morto per me
hai dato tutto a causa dei miei peccati,
non solo sei diventato uomo per me
ma hai anche sofferto
la più crudele delle morti per me.
C’è forse una risposta?
Mi piacerebbe trovare una risposta adatta.
Ma contemplando la tua santa passione e morte
posso soltanto confessare umilmente davanti a te,
che l’immensità del tuo amore divino
fa apparire del tutto inadeguata qualsiasi risposta.
Che io semplicemente stia davanti a te e ti guardi.
Il tuo corpo è lacerato, il tuo capo ferito,
le tue mani e i tuoi piedi
perforati dai chiodi
il tuo fianco aperto,
il tuo corpo morto
ora riposa tra le braccia di tua Madre.
Ora tutto è finito.
È terminato. È compiuto. È consumato.
Dolce Signore, grazioso Signore,
generoso Signore, Signore pronto al perdono,
ti adoro, ti lodo, ti rendo grazie.
Tu hai fatto nuove tutte le cose
Mediante la tua passione e la tua morte
La tua croce è stata piantata su questo mondo
come nuovo segno di speranza.
Che io viva sempre sotto la tua croce, o Signore, e proclami la speranza della tua croce senza stancarmi.
(H.J.M. NOUWEN, Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003).
Domenica delle Palme
Con la celebrazione delle Palme si apre la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione del Signore. La settimana santa non è semplicemente un momento importante dell’anno liturgico, è la sorgente di tutte le altre celebrazioni dell’anno. Tutte, infatti, si riferiscono al mistero della Pasqua da cui scaturisce la salvezza nostra e del mondo. Durante tutta la Quaresima abbiamo compiuto uno spirituale pellegrinaggio, che ci ha portato fino a questa domenica delle Palme. La nostra meta era Gerusalemme, e così la liturgia della Chiesa ci ha accompagnato perché fossimo pronti ad accogliere il mistero della morte e risurrezione di Gesù, che celebriamo nel Triduo Santo. Nei giorni prossimi siamo chiamati a intensificare la presenza della Parola di Dio in mezzo a noi. Vogliamo infatti seguire Gesù da vicino. Non si stacchino i nostri occhi da lui perché dai suoi gesti apprendiamo il suo grande amore per tutti. Sì, dobbiamo tener fissi i nostri occhi sul volto di Gesù che accetta anche la morte, pur di salvarci. Gli occhi del Signore, affranti dal dolo-re ma sempre pieni di misericordia e di affetto, ci guarderanno come guardarono Pietro che pure lo aveva negato; e sentiremo nel profondo del nostro cuore un nodo di dolore e insieme di tenerezza. Possa ognuno di noi, in questi giorni, accogliere il dono delle lacrime come l’ebbe il primo degli apostoli quella notte nel Getsemani perché, assieme a lui, anche noi ci accostiamo nuovamente al Signore e iniziamo a seguirlo con un cuore nuovo.
Questi santi giorni si aprono con la memoria dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. L’ultima tappa sono Betfage e Betania, paesi sul monte degli Ulivi, menzionati nel Vangelo di Marco (11, 1). Gesù manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Vuole entrare in Gerusalemme come mai aveva fatto prima. Fino a quel momento, infatti, tutte le volte che era venuto a Gerusalemme, si era tenuto nella discrezione di una predicazione non sempre riuscita: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Mt 23, 37). Ora, invece, entra nella città santa e nel Tempio per l’ultima volta e vuole rivelare con chiarezza la sua missione di vero e nuovo pastore d’Israele, anche se pesavano su di lui minacce di morte da parte delle autorità del popolo. Era dunque il momento decisivo per la sua missione e per la sua stessa vita. Era la sua ora; quell’ora per la quale era venuto in mezzo agli uomini.
Gesù non entra, però, a Gerusalemme su un carro a cavalli come farebbe il capo di un potente esercito, ma su un asino come un re di pace. Scrive il profeta Zaccaria: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (9, 9). Gesù entra nella città santa come re, ossia come il salvatore che Dio ha inviato per la liberazione del suo popolo. E la gente sembra intuirlo. Infatti, gli corrono incontro perché il suo ingresso sia una festa regale: tutti si mettono a stendere i mantelli lungo la strada ove lui passa e con le mani agitano verdi rami di ulivo cantando: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore». È il canto di gioia che esprimiamo anche noi in ogni santa liturgia, dopo il prefazio, assieme agli angeli mentre entriamo nella memoria della cena del Signore. E la gioia che avvolge i discepoli e la folla ogni volta che il Signore si fa presente in mezzo a noi. E la stessa gioia che ebbe quella donna di Betania, Maria, mentre era prostrata ai piedi di Gesù. E una gioia eccessiva? Qualcuno forse potrebbe pensarlo. I farisei sono indispettiti della festa che si crea attorno a Gesù. Sono loro, infatti, che chiedono a Gesù di far tacere i discepoli. Ma Gesù benedice la gioia di coloro che lo accolgono a Gerusalemme: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre». Pure le pietre avrebbero voce per cantare la gloria del re che viene nel nome di Dio.
Gesù entra nelle città di questo nostro mondo mentre la vita degli uomini è tragica-mente segnata da conflitti e da violenze di ogni genere. È un inizio di millennio davvero buio: le ombre tragiche della guerra sembrano estendersi invece che diminuire, come del resto la violenza diffusa nella vita quotidiana. Abbiamo bisogno di un liberatore. Gesù è il solo che può liberare gli uomini dalla guerra, dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla schiavitù; è l’unico che può far allontanare gli uomini dell’amore solo per se stessi e renderli operatori di una vita più umana e più solidale. Può farlo perché lo mostra anzitutto con la sua stessa vita, con il suo modo di vivere e di camminare tra gli uomini. Il suo volto non è quello di un potente o di un forte, bensì di un mite e umile di cuore. Gesù non è venuto per salvare se stesso, ma per salvare gli uomini. Non è venuto a distruggere ma a salvare. Non è venuto a condannare ma a redimere. E di questo ha fatto lo scopo unico della sua vita.
Passano pochi giorni da quell’ingresso trionfale in Gerusalemme e subito Gesù diviene il crocifisso, il vinto. Egli, che aveva fatto bene ogni cosa, viene portato fuori dalla città e ucciso. Ormai sembra tutto finito per lui: non può più né parlare né guarire. Quella morte agli occhi dei più sembrò una sconfitta. In realtà era una vittoria: era la logica conclusione di una vita spesa per il Padre, per il Vangelo, per i discepoli, per i poveri. Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. E se ne accorse un militare pagano. L’evangelista Marco scrive: «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15, 39). E Dio, Padre buono, risuscitò il suo Figlio. Non permise alla morte di vincere il Suo amore. La vittoria dell’amore di Dio sulla morte continua a guidare ancora oggi quel piccolo corteo di discepoli che si raccolgono sotto le tante croci di oggi e avvolgono i corpi crocifissi con il lenzuolo della misericordia e dell’amore. Il male e la morte non sono l’ultima parola. I discepoli di Gesù continuano ad amare i poveri, i vinti, i malati, i sof¬ferenti, gli anziani, quelli che non hanno nulla da dare in cambio, perché l’amore vince il male e la morte. Questa santa liturgia che ci introduce nei giorni santi ci aiuti a comprendere che il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita e su quella del mondo: la nostra salvezza sta nel restare accanto a Gesù che dona la sua vita per tutti e per tutte. A ognuno di noi la scelta di non abbandonare quel crocifisso, di non tradirlo per paura o per interesse, perché la possiamo trovarci tra coloro che gusteranno la gioia della vita senza fine.