La sofferenza come maestra

Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore. Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita. Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono. Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo. Perciò sia ringraziato Iddio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.
Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti. Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto. E ciò significa che dobbiamo essere disposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi inclinazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla.
(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).

Gli ebrei, Auschwitz e le insidie della memoria

Luoghi della memoria, giornate della memoria, memoriali… Il termine “memoria” è uno di quelli che più sono presenti della nostra vita e nella nostra cultura. La società di oggi ha fatto della memoria un culto.
E ricordare è necessario, su questo non ci sono dubbi, anche se poi la volontà della memoria lascia irrisolte molte questioni, prima di tutto quella dell’oblio: ché il ricordo non elimina l’oblio, anzi in un certo senso lo accompagna, dal momento che ogni ricordo non è che una scelta in un mare infinito di possibilità di memoria. Non si può ricordare senza dimenticare, come non si può dimenticare (e al tempo stesso andare oltre, riconciliarsi) senza ricordare. Inoltre, la memoria è indissolubilmente legata ad una trasmissione: si elabora memoria per trasmettere a qualcun altro quello che non vogliamo vada perduto, per fermare un processo di perdita. Una funzione didattica, quindi, ma non solo.
La memoria infatti costruisce l’identità del singolo e del gruppo, e rappresenta lo scheletro su cui poggiano le idee, le ideologie, le fedi, le politiche. Ne deriva che la memoria ha un suo uso, altro tema su cui molto si discute in questi anni: un uso politico, nazionale, ideologico. E ne deriva anche il fatto che la memoria può essere deformata, e che il compito di chi crea ed alimenta la memoria è anche quello di sorvegliarne l’uso, limitando gli abusi, le falsità, le imposizioni totalitarie, gli appiattimenti conformistici. Consapevoli tuttavia che l’uso della memoria non si può eliminare, che fa parte della memoria stessa, del suo farsi.
Impariamo così che la memoria non è mai un processo naturale, ma una costruzione dell’uomo, una costruzione individuale o collettiva. E che ogni epoca, ogni generazione, costruisce la sua memoria, in un processo di elaborazione sociale e culturale che obbedisce a domande diverse nel tempo. La nostra memoria non è quella dei nostri padri, anche se condividiamo lo stesso oggetto, se ricordiamo gli stessi eventi. Ma tutto questo, come ben sanno gli storici che hanno appassionatamente sviscerato anche questo problema, non impedisce che esistano eventi da ricordare. Gli eventi sono reali, si sono verificati. Distinguere il vero dal falso è un’operazione in un certo senso preliminare alla memoria, che richiede il confronto delle prove e onestà intellettuale. Su questa base di realtà, e solo su questa, si costruisce la memoria, il modo di ricordare.
Sono considerazioni ovvie, rese urgenti da un problema specifico della memoria della nostra società: la memoria, e la trasmissione della memoria, di eventi limite, genocidi, traumi al di là della capacità di accettazione. In particolare, quindi, la memoria di quella che è diventato l’evento limite del nostro secolo: la Shoah. Come storica, come storica degli ebrei, ma anche come ebrea, questo tema mi tocca e mi concerne. E sovente sono richiesta, come molti altri nella mia stessa posizione, di dare il mio contributo al grande rito collettivo della giornata della memoria, il giorno della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio, che in Italia è divenuto da tre anni, con un’apposita legge, giornata della memoria della Shoah. Vorrei qui porre alcuni problemi, esprimere alcuni dubbi e riflessioni che mi vengono dall’aver partecipato direttamente a questa operazione di “trasmissione della memoria”. Questi dubbi non vogliono dire che io pensi che non bisogna ricordare. Credo che ricordare sia indispensabile. Mi domando tuttavia quanto siamo capaci di ricordare, cioè di elaborare una memoria in grado di evitare gli scogli dell’ufficialità e della banalizzazione e di dare un contributo alla costruzione del futuro.

Serve processare i negazionisti?
Facciamo brevemente la storia di come si è costruita la memoria della Shoah, quella che noi oggi possediamo e condividiamo. Non è stato un processo semplice, naturale. Esso è passato attraverso fasi diverse, sia per gli individui che per le collettività. A fasi di rimozione, oblio, si sono alternate fasi in cui il ricordo si è levato alto, gridato. Non tutti quelli che sono tornati hanno reagito nello stesso modo, e le reazioni di ogni individuo sono mutate nel tempo e nelle circostanze.
Molti sopravvissuti hanno taciuto a lungo, alcuni hanno taciuto per sempre. Altri hanno parlato e raccolto il compito di testimoniare. Ecco cosa muove questo dolente insegnamento degli scampati, lo sappiamo, e Primo Levi ce lo ha descritto in maniera insuperabile: l’offesa di fronte alla derisione degli aguzzini, che profetizzavano che nessuno avrebbe creduto ai racconti di chi fosse riuscito a sopravvivere ad Auschwitz, la riparazione verso la memoria dei morti, il bisogno di far sì che nulla di tutto questo possa più succedere, a nessuno. Di qui, le prime testimonianze scritte, dei campi, i primi esili librini della fine degli anni ’40. Se questo è un uomo, rifiutato dalla casa editrice Einaudi, esce nel1947 per i tipi di una piccola casa editrice, la De Silva. Questa è storia nota. 
Quello che è invece meno noto, forse, è che i primi quindici anni dopo la fine della guerra sono stati anni di totale rimozione, di voluto oblio, da parte della società nel suo insieme. E non solo in Italia, ma in tutta Europa e perfino in Israele, dove si raccolgono gli scampati, che vi troveranno in un primo momento l’occasione per ricominciare, ma non quella di elaborare il loro lutto, un processo, questo, che lo storico israeliano Tom Segev descrive con grande efficacia nel suo libro Il settimo milione. Non bisogna affrettarsi però a condannare tale rimozione, a vedervi dietro l’ombra del disinteresse per la tragedia del popolo ebraico: tutti, ebrei e non ebrei, sono infatti impegnati, in un modo o nell’altro, nel creare un mondo diverso, e il passato si perde, si annacqua dietro le spalle di tutti.
Niente testimoni, in quegli anni, e scarsa trasmissione della memoria. Ma alla fine degli anni ’50, il quadro cambia e la costruzione della memoria ha inizio. Alcuni eventi fondamentali segnano la svolta: il grande successo del Diario di Anna Frank, alla cui versione teatrale vengono per la prima volta accompagnate, in Europa e in Italia, intere scolaresche. E poi, il processo Eichmann, in cui i sopravvissuti si succedono alla sbarra, a raccontare lo sterminio nazista. Da allora il ruolo del testimone diventerà fondamentale.
È un fenomeno nuovo, che non si era mai verificato prima d’ora nella storia: che gli scampati ad una tragedia facessero della loro vita di sopravvissuti una missione del ricordo, che si trasformassero in testimoni di professione, che parlano, spiegano, vanno nelle scuole a raccontare, mettendo a nudo la loro sofferenza per trasmettere con più forza la sensazione di quanto è successo. E nata l’era del testimone, per usare l’espressione di un’attenta studiosa francese di queste tematiche, Annette Wieviorka. Negli anni ’70 e ’80, il fenomeno si espande sempre più. Il serial televisivo Olocausto, pur tra le discussioni provocate dalla sua banalità, agisce come catalizzatore. Si cominciano a raccogliere sistematicamente negli archivi audiovisivi le testimonianze. Comincia la Fondazione Fortunoff, a Yale, e, dopo il grande successo del suo film Schindler’s List, continua Steven Spielberg con la sua Shoah Foundation. I sopravvissuti raccontano, le videocassette si accumulano, la memoria finisce negli archivi.
Alla sollecitazione crescente e sempre più affannosa della memoria (ché i sopravvissuti invecchiano e scompaiono), si è naturalmente accompagnata la ricerca storica, la crescita della storiografia. Si sono studiati, si continuano a studiare i meccanismi della morte, si interpreta il processo dello sterminio, se intenzionale o funzionale agli eventi, si portano alla luce documenti, immagini, fotografie, scritti di ogni tipo. Nel frattempo, contemporaneamente alla crescita della memoria, nasce un oscuro fenomeno: il negazionismo. Alcuni studiosi, mossi da nostalgie naziste ma anche di altra matrice (in Francia, ad esempio, quella di una certa ultrasinistra), negano la realtà della Shoah, trasformando in eventi immaginari tutti quelli che i nazisti avevano occultato, di cui avevano accuratamente distrutto le tracce. Per loro, le camere a gas non esistono, i morti nei campi di sterminio sono dovuti alle epidemie di tifo, e il fatto che nessun documento parlasse formalmente di “sterminio” significa che questo non c’è stato.
Questa negazione ci ha preoccupato, ci è sembrata pericolosa, e ci ha spinto a chiedere la protezione del diritto, a tutelare con la legge la memoria. Si è proibito per legge la negazione dell’Olocausto, si sono processati i negazionisti. Chissà, forse, sarebbe stato meglio non occuparcene troppo, lasciarli nel loro discredito.
Il processo di costruzione della memoria non dipendeva però che in minima parte dalla necessità di confutare le menzogne dei negazionisti. Era qualcosa di molto più profondo, un processo fondante dell’identità europea del XX secolo, che riconosceva al suo centro il delitto dello sterminio e la necessità della riparazione. L’evento limi- te del secolo dei totalitarismi diventava il fondamento di un mondo diverso.
L’apertura dei cancelli di Auschwitz ben poteva simboleggiare l’inizio di una nuova era. Fondando sulla memoria della Shoah tanta parte della sua identità, la società dichiarava di essere dalla parte delle vittime. In qualche modo, si impegnava a non permettere che una cosa simile potesse mai più succedere: non solo agli ebrei, ma a chiunque altro, qualunque altro perseguitato della storia. Auschwitz era ormai divenuto il simbolo del male assoluto.
Per quanto importante e positiva, l’operazione era gravida di rischi, soprattutto per gli ebrei, è che dopo essere stati per secoli il simbolo stesso dell’alterità venivano ora riproposti – consenzienti – in un ruolo altrettanto simbolico di vittime. Se mai non fossero stati all’altezza del loro ruolo, il rovesciamento sarebbe stato rapido: proprio loro, avrebbe gridato il mondo intero, come è successo con l’odioso paradigma della vittima trasformata in carnefice che è stato agitato in occasione del conflitto israelo-palestinese, alimentando nel mondo ebraico l’idea, un po’ claustrofobica ma non infondata, che gli ebrei piacciano soprattutto nel ruolo di vittime. Ma i rischi concernevano l’intero processo della trasmissione della memoria. Il tempo che passava stemperava gli orrori del passato, mentre si affacciavano altri orrori non tanto diversi da quelli nazisti: la Cambogia di Pol Pot, il genocidio del Ruanda, la pulizia etnica in Bosnia. E la memoria, ancora cocente, del genocidio degli armeni. Di qui il dibattito, tuttora aperto, sull’unicità di Auschwitz. Un’unicità a cui molti continuano ad aggrapparsi come se rinunciarvi volesse dire banalizzare Auschwitz e non, come è stato sostenuto da altre parti, debanalizzare gli altri crimini proprio attraverso il prisma di Auschwitz.

No alle graduatorie degli orrori
Ma il problema tocca anche il modo di ricordare, l’organizzazione di questa trasmissione della memoria. Di come insegnare Auschwitz, un convegno torinese di alcuni anni fa si è occupato in maniera intelligente e pacata, senza peraltro che queste riflessioni filtrassero a sufficienza nei luoghi di trasmissione della memoria. Un altro problema è quello delle immagini. Le cataste di corpi accumulate non hanno bisogno di essere mostrate ripetutamente ai ragazzini delle medie, che finiscono, all’inverso, per considerare l’orrore come normalità, per assuefarsi velocemente alla morte. I filmati che ho visto e all’occasione presentato nelle scuole contenevano ripetute immagini di orrore, molte delle quali superflue. E un brivido mi corre nella schiena quando sento nelle scuole parlare di “viaggio premio ad Auschwitz”. Molte iniziative, nonostante le ottime intenzioni, rischiano di trasformarsi in boomerang. Infatti, a volte si ha la sensazione che si stia verificando un eccesso di attenzione, che porta con sé pesanti rischi di banalizzazione, se non addirittura di fastidio e di rifiuto. E mi domando se non stiamo allevando, nel migliore dei casi, una generazione indifferente a qualsiasi orrore.
La riflessione ci è imposta non soltanto da questi dubbi, ma anche dal fatto che ci troviamo di fronte ad una svolta. L’era del testimone sta per finire, per evidenti motivi generazionali. Dobbiamo ripensare tutta la nostra strategia della memoria, se vogliamo evitare che dall’eccesso di attenzione si passi semplicemente all’indifferenza, all’oblio. Dobbiamo ricostruire una visione più da lontano, saldando la frattura fra storia e memoria. Lasciare spazio agli altri orrori, ai genocidi di oggi, di ieri. Essere consapevoli del rischio che si corre tra- sformando gli ebrei in simboli, in icone.
Evento limite per eccellenza, la Shoah è così irta di pericoli anche nella sua trasmissione. Essa infatti porta alle estreme conseguenze la discrepanza tra esigenza conoscitiva- conoscere quello che è stato, ricostruirlo, fissarlo – ed esigenza etica – evitare che si ripeta sotto qualsiasi forma. Dal punto di vista conoscitivo, ciò che risalta è l’ineluttabilità della distruzione, la casualità della sopravvivenza. Ma dal punto di vista dell’insegnamento etico dobbiamo insegnare soprattutto la responsabilità, la libertà della scelte: spiegare ogni gesto, sia pur piccolo, è importante, serve, deve essere fatto. E ancora un altro problema che questa memoria ci pone: come guidare i giovani sulla via di una conoscenza profonda, interiore, che consenta anche la catarsi, il superamento dell’orrore fine a se stesso? E come farlo, senza trasformare il nostro insegnamento in un film a lieto fine, che addormenti le coscienze invece di risvegliarle?

Articolo scritto da Anna Foa in Vita e Pensiero
Anna Foa, docente di Storia moderna all’Università “La Sapienza” di Roma, è autrice di numerosi saggi dedicati alla presenza del popolo ebraico nel vecchio continente. Il suo libro più noto è “Ebrei in Europa dalla peste nera all’Emancipazione”.

Che cercate?

Gesù si volse e, visto che lo seguivano, dice loro: che cercate? Qui ci si insegna che Dio non previene la nostra volontà coi suoi doni: ma, quando noi abbiamo fatto il primo passo, quando abbiamo offerto la nostra volontà, allora anch’egli ci da molteplici occasioni di salvezza.
Che cercate? E che è questo? Colui che conosce il cuore degli uomini, colui che possiede a fondo i nostri pensieri, questi interroga? Sì, ma non per apprendere (come si potrebbe dire una cosa simile?), ma per metterli più a loro agio con la domanda, per ispirare maggior confidenza, per mostrar loro che li riteneva degni di un colloquio, è probabile infatti che arrossissero e fossero timorosi, perché si sentivano ignoranti, e avevano udito il maestro affermare di lui grandi cose. Volendo allontanare e la vergogna e il timore li interroga: non li lascia giungere in silenzio fino a casa. Essi tuttavia l’avrebbero seguito ugualmente anche se non li avesse interrogati, e tenendogli dietro sarebbero giunti a casa. Perché dunque li interroga? Per la ragione che ho detto: per conciliarsi il loro animo timido ed esitante, ed infondere fiducia.
Essi poi non dimostrarono il loro desiderio soltanto col seguirlo, ma anche con la domanda che gli rivolsero. Lo chiamano infatti Maestro senza aver ancora ne appreso ne udito nulla da lui, annoverandosi senz’altro tra i suoi discepoli e indicando la ragione per cui l’avevano seguito: il desiderio cioè di udire qualcosa di utile. Ma vedi quanta prudenza. Non dissero: Istruiscici su qualche punto di dottrina o insegnaci qualche altra cosa necessaria. Dicono invece: Dove abiti? Desideravano infatti e parlargli e ascoltarlo con tutta calma. Non rimandano perciò a più tardi, non dicono: Verremo domani e ti ascolteremo quando parlerai in pubblico, ma mostrano che avevano grande desiderio di udirlo, tanto da non essere trattenuti neppure dall’ora tarda. Il sole infatti stava per tramontare: Eran circa le quattro, dice. Perciò Cristo non indica loro la casa o il luogo dove abita: li attira invece anche più a sé mostrando di averli accettati come suoi. E neanche dice: Non sarebbe ora il momento di venirmi a trovare, udrete domani quel che volete udire, ora ritornate a casa, o qualcosa di simile, ma parla loro come fossero amici da lungo tempo. […]
Impariamo anche noi sul loro esempio a tutto posporre all’istruzione nelle cose di Dio, a non ritenere inopportuno nessun momento. Anche se è necessario, per questo, andare in casa di estranei, e avvicinare, noi, uomini oscuri, degli uomini grandi, anche intempestivamente, in qualunque momento, non trascuriamo mai un simile commercio. Abbiano il loro tempo fisso il cibo, i bagni, le cene e le altre cose riguardanti la vita quotidiana: ma l’apprendimento della celeste sapienza non abbia ora determinata: tutti i momenti sono buoni.

GIOVANNI CRISOSTOMO (350-407), Omelie sul vangelo di Giovanni, 18).

Pellegrinaggio: un ritorno a Dio

Antropologi, sociologi e studiosi delle religioni sono concordi nel ritenere il pellegrinaggio come uno dei fenomeni più antichi e diffusi della storia umana. Anche la definizione più scarna del viaggiare – “trasferirsi da un luogo all’altro” – si carica di molteplici significati non appena la leghiamo al pellegrinaggio e riflettiamo su cosa intendiamo per “luogo”, su cosa pensiamo dicendo “altro”, su cosa comporta “trasferirsi”.
Anche nell’ambito storico-mitologico proprio della tradizione giudeo-cristiana il viaggio inteso come esodo, pellegrinaggio costituisce il paradigma capace di fornire la chiave di lettura dell’intera rivelazione biblica. Così “tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, e in particolare per ‘il figlio perduto’”(Giovanni Paolo II, TMA 49).
Se il pellegrinaggio, infatti, è metafora dell’intera esistenza umana, allora diviene anche il “luogo” in cui il cristiano è chiamato alla santità, il percorso che ha come meta visibile un “luogo santo”, ma come scopo, la santificazione del pellegrino, “figlio perduto” che ritrova la propria santità nel cammino verso la santità del Padre che lo attende.
In realtà il pellegrinaggio ha una dimensione paradossale: il pellegrino lascia la propria terra, la propria casa per andare verso un “altrove”, percepito come luogo in cui poter ritrovare le proprie radici: si mette in movimento cioè per ritrovare stabilità, saldezza. Ricordiamo il salmo che fa di Gerusalemme, luogo santo per eccellenza, luogo di pellegrinaggio, non solo la meta ma innanzitutto la “radice” di tutti i popoli: “L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda.
Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato. E danzando canteranno: Sono in te tutte le mie sorgenti” (Sal 87,5-7). In altre parole nel pellegrinaggio si va verso se stessi, si risale alle proprie origini, a ciò che ci fa sussistere, si torna al proprio cuore, un cuore però decentrato da se stesso, un cuore nuovo e antico, un cuore “altro”, unificato, deposto in noi dalla misericordia del Padre.
È in questo senso che emerge anche l’importanza dei due elementi fondamentali e complementari del pellegrinaggio: da un lato il viaggio stesso, l’essere in movimento, l’iter che si compie, dall’altro il luogo a cui si desidera pervenire. Lo snodarsi del viaggio ha una dimensione di esodo, di uscita dal proprio mondo, di costante cambiamento di prospettive, di orizzonti, di panorami, un’inesauribile ricchezza di volti e paesaggi nuovi, un’alternanza del pensiero tra il luogo noto e certo che si è lasciato e l’ignoto cui si va incontro e del quale si sa solo che può offrirci nuova e duratura saldezza.
La meta del pellegrinaggio deve dal canto suo essere chiara fin dalla partenza: “nessun vento infatti è favorevole alla nave che non sa a quale porto vuole approdare”, ammoniva Seneca. E questa sua qualità di “meta”, di telos, di compimento le viene proprio dal poter offrire al pellegrino che le corre incontro quel clima di anelito alla santità, quello “spazio sacro” di fronte al quale ci si toglie i calzari del viandante, quel “faccia a faccia” con la verità che fa esclamare “Dio è là”.
I rabbini si chiedevano chi preghi veramente e di più: il credente o Dio? E concludevano che Dio prega gli uomini molto di più di quanto gli uomini facciano con Dio, perché egli sempre prega gli uomini di ritornare a lui: “Ritornate, ritornate a me”, dice il Signore (cf. Ger 3,12.14.22; 4,1; Mal 3,7; ecc.), “Uomo, dove sei?” (Gen 3,9). Dio prega gli uomini affinché tornino a lui intraprendendo un cammino, un itinerario dalle regioni dell’idolatria, dall’alienazione della morte per approdare alla comunione con lui, trovando così pienezza di vita, di pace, di shalom. Dice infatti il Signore, il Santo di Israele: “Nel ritornare a me (nella conversione) e nella riconciliazione sarà la vostra salvezza” (Is 30,15).
Nel pellegrinaggio cristiano autentico, al cammino materiale dell’homo viator deve corrispondere il cammino del “ritorno” (teshuvà-metánoia) a Dio, cammino destato e voluto dal Signore che chiama: questo cammino dunque è un dono, è la risposta a una chiamata, alla preghiera che Dio rivolge a ogni essere umano.
Dio non sta solo alla fine del cammino di conversione, quando ci appare con le braccia aperte del Padre che ci viene incontro perché ci ha visto da lontano (Lc 15,20), ma, con la sua presenza invisibile eppure efficace, Dio sta anche all’inizio di tale cammino perché è lui che crea in noi il desiderio di camminare per ritornare a lui. Per questo il profeta prega: “Signore, fa’ che ritorniamo!” (Sal 80,4.8.20), e ancora: “Facci ritornare, Signore, e noi ritorneremo” (Lam 5,21; cf. Ger 31,18). Si potrebbe dire che la conversione implica un esodo, una uscita da e un andare verso che ha come meta Dio stesso.
Se questo è il senso più marcatamente cristiano del pellegrinaggio, la pratica del camminare verso un luogo animati da un’intenzione spirituale è comune a ogni universo religioso. In particolare, in ogni tempo e in tutte le tradizioni culturali, religiose e spirituali, la “montagna” – a prescindere dalla sua altezza effettiva – ha costituito un rimando simbolico alla dimensione del sacro.
E non potrebbe essere altrimenti, se si considera che il rilievo montuoso mette in connessione fisica e visiva i due elementi sacrali per eccellenza: la terra – la grande madre, il grembo fecondo di vita e di frutti – e il cielo, quella volta abitata dagli astri che comunica all’essere umano la percezione della trascendenza e dell’immortalità.
Né si possono dimenticare gli elementi che favoriscono la simbolica dell’accostarsi alla montagna come cammino di ascesa interiore e di ricerca di sé: si pensi alla contrapposizione tra l’orizzontale della pianura e il verticale del monte, oppure all’alternarsi di salite e discese, o ancora allo sforzo (ascesi) necessario per l’ascesa e alla preparazione che obbliga al caricarsi del solo necessario; anche l’affinarsi dell’aria, il rarefarsi della vegetazione, il semplificarsi dei colori, l’alternarsi delle condizioni meteorologiche contribuiscono a un analogo cammino interiore di purificazione.
Inoltre, le montagne ispirano per la forma stessa di paesaggio che determinano, una sensazione di timore, una percezione del “numinoso” che sembra abitarle: non è un caso se molte culture di tipo tradizionale le hanno sempre ritenute dimora di dèi e demoni, quindi luoghi da temere e venerare.
Vi è una sorta di filo rosso che collega montagne lontane e tradizioni remote, rendendole vicine e contemporanee: la valorizzazione di antri e grotte, la costruzione di templi e memoriali, la pratica di pellegrinaggi e riti ricorrenti paiono costituire una sorta di linguaggio universale che l’essere umano non ha mai cessato di conoscere, di praticare e di arricchire.
E in questo senso le immagini sono a volte ancora più eloquenti delle parole: di fronte all’incanto di certi paesaggi o all’imponenza di monti e vette si fatica a discernere di primo acchito a quale tradizione religiosa o spirituale appartengano, anche perché non sono rari i casi di luoghi che nel corso dei secoli hanno assunto valenza simbolica per fedi via via diverse.
Non sorprende allora che sia comune a molte tradizioni spirituali parlare di “vette della conoscenza” o il dato che momenti chiave della rivelazione e del rapporto con il sacro e il santo siano avvenuti “sul monte”: la sua forza simbolica è tale che anche umili colline sono chiamate “montagne” nel momento in cui divengono luogo dell’incontro con una realtà più grande e più profonda dell’uomo, meta di un pellegrinaggio che è prima di tutto interiore.

Enzo Bianchi

(articolo tratto da www.monasterodibose.it)

Il battesimo di Gesù e il nostro battesimo

«Il battesimo di Gesù ci ricorda soprattutto il nostra battesimo e ci chiede che cosa è cambiato nella nostra vita con l’ingresso in essa di Dio. Ci chiede: “Che cosa significa in realtà per me essere battezzato?”.
[…] Il battesimo significa che noi restituiamo a Lui quello che da Lui è venuto. Il bambino non è mio come può esserlo una somma di denaro o uno strumento qualsiasi. Egli non è mai proprietà di qualcuno. È affidato da Dio alla nostra responsabilità, liberamente e in modo sempre nuovo, affinché noi gli permettiamo di essere un libero figlio di Dio. Solo grazie a questa consapevolezza è possibile trovare la giusta via tra l’autoritarismo e la mancanza di autorità, tra la pretesa che molti hanno di disporre dei propri figli come se fossero una loro proprietà, il tentativo di plasmare i figli in base alle proprie idee e ai propri desideri, tentativo che finisce per rovinarli e far loro violenza, e quell’assurdo lasciar correre che viene spacciato come rispetto per la libertà, ma che in realtà è disprezzo della natura umana e della sua dignità. Perché in questo modo si nega al bambino il dono dell’amore e della comunità in cammino, lo si abbandona alle forze oscure dell’esistenza. Questo timore distruttivo della garanzia offerta dalla verità e dall’amore è inevitabile se l’uomo non sa più chi egli sia e per che cosa viva. In questo caso egli non può dare al bambino altro che la vita, che da sola è senza senso. Ma noi sappiamo a chi effettivamente appartiene il bambino e a chi è debitore. Se lo introduciamo alla luce di Dio e ai suoi insegnamenti, non gli facciamo violenza inculcandogli nostre idee personali, ma lo formiamo e lo guidiamo verso quelle che è la sua natura più autentica. Allora gli doniamo la sua vera libertà, il suo essere se stesso. Lo consegniamo nella mani di Colui che è creatore e salvatore. Questo è al tempo stesso il dono e l’impegno del battesimo».
(Joseph RATZINGER, Sul natale, Torino, Lindau, 2005, 110-111).