Le beatitudini e la felicità

Le beatitudini indicano il cammino della felicità. E, tuttavia, il loro messaggio suscita spesso perplessità. Gli Atti degli apostoli (20,35) riferiscono una frase di Gesù che non si trova nei vangeli. Agli anziani di Efeso Paolo raccomanda di «ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”». Da ciò si deve concludere che l’abnegazione sarebbe il segreto della felicità? Quando Gesù evoca “la felicità del dare”, parla in base a ciò che lui stesso fa. È proprio questa gioia – questa felicità sentita con esultanza – che Cristo offre di sperimentare a quelli che lo seguono. Il segreto della felicità dell’uomo sta dunque nel prender parte alla gioia di Dio. È associandosi alla sua ‘misericordia’, dando senza nulla aspettarsi in cambio, dimenticando se stessi, fino a perdersi, che si viene associali alla ‘gioia del cielo’. L’uomo non ‘trova se stesso’ se non perdendosi ‘per causa di Cristo’. Questo dono senza ritorno è la chiave di tutte le beatitudini. Cristo le vive in pienezza per consentirci di viverle a nostra volta e di ricevere da esse la felicità.

Resta tuttavia il fatto, per chi ascolta queste beatitudini, che deve fare i conti con una esitazione: quale felicità reale, concreta, tangibile viene offerta? Già gli apostoli chiedevano a Gesù: « E noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che ricompensa avremo?» (Mt 19,27). Il regno dei cieli, la terra promessa, la consolazione, la pienezza della giustizia, la misericordia, vedere Dio, essere figli di Dio. In tutti questi doni promessi, e che costituiscono la nostra felicità, brilla una luce abbagliante, quella di Cristo risorto, nel quale risusciteremo. Se già fin d’ora, infatti, siamo figli di Dio, ciò che saremo non è stato ancora manifestato. Sappiamo che quando questa manifestazione avverrà, noi saremo simili a lui «perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).

(J.-M. LUSTIGER, Siate felici, Genova, 1998, 111-117 passim).

Non lasciamo solo Francesco

Il bagliore mortifero della bomba atomica e quello benefico della luce di Cristo. Sono le due immagini che avviano e chiudono la riflessione sul disarmo nucleare di mons. John C. Wester, arcivescovo di Santa Fe (USA). La lettera pastorale, pubblicata l’11 gennaio porta il titolo: Vivere alla luce della pace di Cristo.
In una visita a Hiroschima e Nagasaki (2017) la memoria dei bambini che accorrono alla finestra per vedere l’inspiegabile bagliore di quella mattina (6 agosto 1945) e la sua paura infantile nell’ottobre 1962, durante la crisi dei missili a Cuba, quando un falso allarme costrinse lui bambino e gli altri a fuggire a casa per il pericolo di un attacco nucleare russo, convergono per dare spessore di vita alla predicazione insistita di papa Francesco contro il riarmo nucleare in atto.
Magistero particolarmente rilevante per la diocesi statunitense del New Mexico che vede la presenza nel suo territorio di alcuni dei maggiori centri mondiali di armi nucleari: Los Alamos, Air Force Nuclear Weapons Center, Kirtland Air Force Base. L’approccio è bene indicato dal sottotitolo: un confronto sul disarmo nucleare.

Una parola dopo 40 anni di silenzio

L’interesse per il documento che si sviluppa in una cinquantina di pagine e in quattro parti (operatori di pace, gli insegnamenti del magistero; minaccia di distruzione nucleare; l’unica alternativa è il disarmo; suggerimenti per il dialogo e l’azione) è motivato dalla scarsità di riflessioni episcopali recenti in merito che lascia in solitaria il magistero di Francesco e dalla provenienza del documento da parte di un vescovo americano, erede di una delle più discusse e diffuse lettere pastorali, quella della conferenza episcopale americana dell’ottobre 1982 (La sfida della pace).
La diocesi di Santa Fe che ha tenuto viva quella memoria grazie ad alcune figure (il francescano Louis Vitale e la suora Megan Rice) e attraverso la pratica di pellegrinaggi, meeting e iniziative di preghiera ecumenica, ha percepito l’accelerazione avviata da papa Francesco.
La formula “guerra mondiale a pezzi” raccoglie la pluralità delle modalità belliche attuali: scontri etnici, fondamentalismo islamico, instabilità programmate, guerre congelate e riavviate, conflitti ibridi, armi autonome, guerre spaziali e cibernetiche. Il documento di Abu Dhabi (Fratellanza umana, 2019) rafforza la rimozione delle motivazioni religiose alla violenza. Il riarmo atomico obbliga alla condanna della minaccia di usare le bombe atomiche, ma anche del loro possesso. La dottrina della deterrenza risulta sempre meno convincente.

Un potere distruttivo e incontrollabile

L’ormai lunga storia dell’opposizione all’armamento nucleare avviata dalla Pacem in terris (1963) e dalla costituzione conciliare Gaudium et spes (1965) ha conosciuto un significativo sviluppo nel magistero pontificio (interventi all’ONU di Paolo VI e Giovanni Paolo II), nei messaggi per la giornata della pace (ad es. quello di Benedetto XVI nel 2006) e nelle lettere episcopali di vari paesi negli anni ‘80.
Quella americana, già segnalata, ha avuto una ripresa, seppur in tono minore, nel 1993 e nel 2020. Francesco ha fatto propria la dottrina della non violenza (messaggio sulla pace del 2017) e nell’enciclica Fratelli tutti (2020) ha scritto: «La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuovo tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo e incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che l’utilizzerà bene.
Dunque, non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare  di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra» (n. 258). Il vescovo  John C. Wester non manca di citare l’insegnamento di Martin Luther King, figura di riferimento per il pacifismo americano: «Il comando di amare i nemici è un’assoluta necessità per la nostra sopravvivenza. L’amore ai nemici è la soluzione dei problemi del nostro mondo».

Le narrazioni e i “miti”

Di fatto l’ex Unione Sovietica (oggi Russia) e gli Stati Uniti, con gli altri paesi che possiedono l’atomica, hanno sempre declinato la deterrenza con la capacità positiva di combattere una guerra nucleare. Un indirizzo che accomuna tutte le successive amministrazioni americane, fino ad Obama e Trump. L’esigenza di competitività sta spingendo enormi programmi di modernizzazione. Gli USA prevedono di spendere nei prossimi decenni, 1,7 trilioni di dollari.
L’ambiguità segna la storia nucleare fin dal principio. Molti storici ritengono che la resa del Giappone fosse programmata per il 15 giugno 1945 e diverse personalità dell’amministrazione Truman erano contrari all’atomica. Il loro utilizzo rispondeva all’opportunità di dimostrare all’Unione Sovietica la superiorità militare americana. Solo all’inizio degli anni ‘50 si è diffuso il “mito” di una bomba atomica che avrebbe salvato un milione di vittime fra i soldati americani. Nella recente tensione Nato – Russia a proposito dell’Ucraina un senatore ha detto che la guerra nucleare non era esclusa.
Sono 13.000 le testate nucleari nel mondo. Gli USA ne possiedono 3.750. Basterebbero queste per distruggere molte volte il pianeta. I nuovi impianti di produzione saranno operativi fino al 2075. Ogni anno vengono dismesse 75 bombe, ma si costruiscono 80 nuclei di “bombe a fossa” di plutonio. Solo per Los Alamos si prevedono per il 2022 4 miliardi di dollari, per il 72% destinati al nucleare. Da parte sua, Putin ha annunciato un importante programma di modernizzazione nucleare in grado di dare scacco agli Stati Uniti. La Cina sta costruendo centinaia di silos rinforzati per la balistica intercontinentale.
La tensione su Taiwan potrebbe innestare la corsa allo sviluppo nucleare fra India, Cina e Pakistan. USA e Regno Unito hanno deciso di condividere con l’Australia il sottomarino nucleare. Israele non ha mai dato numeri sul possesso di armi nucleari. La Corea del nord ne ha 45. L’Iran sembra essere in grado di costruire una bomba atomica. Sono oltre 2.000 le testate nucleari (USA, Russia, Francia e Gran Bretagna) pronte all’uso.

Scommessa sul dialogo

Non è ancora risolto il tema della contaminazione delle scorie nucleari e si relativizzano i casi di una esplosione casuale: nel 1957 una bomba all’idrogeno, per fortuna non completamente attrezzata, è caduta nel New Mexico. Nel 1961 due bombe da 4 megatoni sono cadute con un bombardiere. Tre sistemi di sicurezza non hanno funzionato. Solo un quarto ha impedito la deflagrazione.
Fra il ‘79 e l’81 per quattro volte una simulazione di attacco sovietico è stato erroneamente inserito nella rete di allerta precoce americana. Nel 1983 la prontezza di spirito  di un colonnello sovietico ha impedito che due segnalazioni false diventassero una risposta vera. Così nel 1995, sempre in Russia. La crescita degli stati che possiedono l’atomica, le nuove tecniche informatiche che possono filtrare nei sistemi di controllo, il possibile uso da parte di ceppi malavitosi internazionali, fanno innalzare il pericolo giorno per giorno.
Il trattato di non proliferazione, firmato da 189 paesi ed entrato in vigore nel 1970, non è riuscito a impedire che stati “non nucleari” arrivassero alla bomba e che quelli che la possedevano alimentassero i loro arsenali. Il Trattato di proibizione del possesso di armi nucleari, entrato in funzione nel 2021, non è stato firmato da nessuna potenza nucleare.
Il vescovo  John C. Wester ricorda che nel territorio della diocesi sono stoccate 2.500 testate e centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti radioattivi e tossici. La presenza di una industria bellica di queste dimensioni non ha affatto giovato al territorio che, in 70 anni, è scivolato dal 37° al 49° posto del reddito fra gli stati federali. «Alla luce di questi dati e realtà, assieme a papa Francesco e a molti altri, credo sia giunto il momento di impegnarci a livello globale per una completa abolizione della armi nucleari.
Se cresce la consapevolezza di tutti è possibile avviare un processo di smantellamento e smaltimento, acquisendo nuove competenze lavorative e nuove opportunità di ricerca. Gli investimenti sull’energia pulita porterebbero sul territorio 9.000 posti di lavoro. Il lavoro di consapevolezza, se si allargasse nel mondo in forma parallela ai pericolo che tutti corrono, mostrerebbe che investire sui programmi internazionali di risoluzione dei conflitti sia molto più produttivo che moltiplicare le ogive nucleari.
Il vescovo impegna i suoi fedeli in una azione di confronto «rispettoso, radicato nella preghiera e non violento». «Sono convinto che il dialogo di cui parla Francesco sia ciò che serve al nostro mondo odierno. La soluzione alle nostre divisioni e controversie non è la violenza e la guerra, ma gli sforzi onesti e sinceri di uomini e donne in dialoghi che portino alla pace. E il confronto sul disarmo nucleare è parte essenziale del percorso».

 

Articolo tratto da: Disarmo: non lasciamo solo Francesco – SettimanaNews

Le parole dell’Avvento

A) Deserto e fiume
Se il deserto è il luogo dell’intimità con Dio, della prova, della purificazione, dell’ab-battimento degli idoli, viverne la spiritualità, oggi, deve comportare tante conseguenze: non lasciarci prendere dall’affanno delle cose; non sprofondare nello scoraggiamento quando si sperimenta l’aridità e la fatica nel quotidiano, con tutte le sue tentazioni; abbat-tere i piccoli idoli che abbiamo eretto, forse anche accanto alla croce, nel santuario della nostra coscienza.
E se il fiume, nella simbologia biblica, indica la salvezza che straripa provocando novi-tà di vita, sarebbe opportuno chiederci se noi da queste acque ci lasciamo appena lambi-re, rimanendo a mezza costa o sul greto, sedotti magari solo dalla curiosità, oppure ci siamo decisi cordialmente a «entrare nel fiume».

B) Parola e voce

II Battista, definito semplice voce di colui che verrà dopo e che sarà la Parola, deve provocare, in noi, una conversione all’umiltà, alla coscienza del limite, al rifiuto di ogni arrogante prevaricazione. Noi siamo i servi della Parola. Le prestiamo vibrazioni e riso-nanze. La portiamo lontano e le diamo cadenze di attualità. Ma la Parola è Cristo. È lui che giudica e che salva.
Forse la considerazione della nostra semplice strumentalità, oltre che spingerci all’ap-profondimento della Parola che poi, come credenti in Gesù, dobbiamo rivestire di voce, potrebbe riscattarci anche da non pochi abusi di potere.

C) Denuncia e proposta
Lo stile di Giovanni che rimprovera gli ebrei e, ricorrendo al vocabolario più duro, ne sferza la cattiva condotta di vita, potrebbe fuorviarci, se non tenessimo presente che, nel suo messaggio, accanto alla denuncia si colloca l’annuncio, con una incredibile forza pro-positiva. «Razza di vipere», sì. Ma anche: «Convertitevi», «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri: il regno dei cieli è vicino» (Mt3, 3).
Ci sarebbe da chiedersi se anche nelle nostre comunità cristiane lo sbilanciamento sui versanti della denuncia, che per altro non ha molto bisogno di inventiva, non debba esse-re ricondotto a più maturo equilibrio mediante proposte positive, incoraggianti, che fac-ciano appello alle risorse della speranza. Sarebbe ben triste che scambiassimo la profezia con l’esercizio del brontolare cronico, dimenticando che essa è danza più che lamento.

D) Acqua e fuoco
«Io vi battezzo con acqua… egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3, 11). È mol-to significativo che già lo Spirito Santo venga insediato al centro dell’economia di salvez-za. Non è raro, infatti, che il Natale venga percepito come espressione del protagonismo solo del Padre e del Figlio, rimandando quasi una più seria presa in considerazione dello Spirito Santo al periodo di Pentecoste. Non c’è nulla di più deleterio di questa visione.
Non sarebbe fuori posto oggi buttare lì, come una pietra nello stagno, una domanda a bruciapelo: che cosa significa per noi credenti fermarsi all’acqua di Giovanni?

E) Grano e pula
Non è esercitare forme di ricatto o di terrorismo spirituale, su di sé o sugli altri, se og-gi ci chiediamo qual è la percentuale della crusca nel frumento della nostra esistenza. E non è neppure dare sfogo all’ingenuità se ci si esercita in una specie di bilancio di previ-sione, pensando a quale sarà la crusca della nostra vita che il Signore un giorno brucerà e a quali saranno i chicchi di grano lucente che egli riporrà nei suoi granai. È solo il tentati-vo di chi vuol tradurre in spessore di concretezza l’invito alla conversione.
(Don Tonino Bello, Avvento. Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 61-66).
Il cristiano è un prigioniero
Il cristiano è un prigioniero.
Prigioniero di una vita: la vita di Cristo. Non è il propagandista di un’idea, ma il mem-bro di un corpo che vive e che vuole crescere.
Prigioniero di un pensiero: non è un libero pensatore, né il propagandista di un’idea, ma la voce di un altro: “la voce del Padrone”.
Prigioniero di uno slancio: di un desiderio a misura di Dio, che vuole salvare ciò che è perduto, guarire ciò che è malato, unire ciò che è separato, perpetuamente ed universal-mente.
Essere cristiano è essere prigioniero di uno stato di fatto, prigioniero di dimensioni che da ogni lato non sono più le nostre, prigioniero, se posso dire, di una libertà che ha scelto in anticipo per noi.
È in questa cattività che il missionario deve annunciare il Cristo che egli vive, annun-ciare un messaggio che ha ricevuto e che non deve modificare; trasmettere una salvezza che non viene da lui e che ha la misura del mondo intero. Quel Cristo che egli vive, non può modificarlo. Ne è prigioniero. Quel messaggio, non può modificarlo. Ne è prigionie-ro. Quella salvezza non può restringerla. Ne è prigioniero.

(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 19-20).

Maria, Vergine e Madre dell’attesa

Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all’inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti. L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno. L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia. Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.
Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.
Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i pro-fumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.

Dio ci dona il suo tempo

Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico. Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino.
Tutti diciamo che “ci manca il tempo”, perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha una “buona notizia” da portare: Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova. Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi “cardini” del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la “parusia”, la venuta finale che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non so-no da intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: “Vegliate!” (Mc 13,33.35.37). È rivolto ai discepoli, ma anche “a tutti”, perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso. Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù.
InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.