“Parole” che non passano

“(…) In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno (…)”. Lc 21,29-33

Questa generazione è ogni generazione: la sua, la mia, la tua. In ogni generazione avvengono sempre tutte queste cose, come in ogni vita, cioè che il male vien fuori nitido, lo si vede, lo si tocca con mano ogni giorno: è davanti ai nostri occhi, spesso indorato per nasconderlo, ma esiste in ogni rifiuto, in ogni esclusione, in ogni emarginazione. È nelle nostre complicità con le scelte fatte solo in nome dell’efficienza, della salvaguardia della finanza; è nelle nostre indolenze, nel nostro piegarci davanti al male stesso quando diciamo che “noi non si può nulla, è più grande di noi” e accettiamo di piegarci davanti ad esso rassegnati ma con la pancia sempre piena.
Io mi chiedo sempre come facciamo a vedere il volto del Figlio dell’Uomo, il volto del Cristo in ogni uomo: questo è il problema della nostra generazione come di tutte le altre.
Non è solo credere che Gesù è il messia, che Gesù è il figlio di Dio, il problema è un altro: è riconoscerlo nell’ultimo degli uomini. È lì il problema della fede e della testimonianza cioè riconoscere il Figlio dell’Uomo in ogni figlio di uomo, cominciando dagli ultimi: se scarto uno condanno Dio e lo metto in croce. C’è il male anche nella storia di noi cristiani quando facciamo alleanza con i produttori e sfruttatori di male il cui prodotto sono i milioni di crocifissi della nostra storia.
Quando vedremo il volto del Figlio dell’Uomo in ogni uomo, allora Dio sarà tutto in tutti. Quando vivremo da fratelli perché ciascuno riconoscerà di essere figlio di quel Mistero che ognuno pretende di possedere ma che, in verità, possiede ciascuno di noi, allora tutto sarà compiuto e le Sue parole saranno davvero “passate” dentro la nostra storia.

Gesù, verità di Dio e dell’uomo

Siamo giunti alla fine dell’anno liturgico B, nel quale abbiamo ascoltato nella liturgia domenicale il vangelo secondo Marco. Domenica scorsa l’annuncio del Veniente, il Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26), ci ha rallegrati, perché questa è la nostra speranza, la nostra atte-sa: che il Signore Gesù venga nella gloria e venga presto. Oggi, in verità, celebriamo un aspetto di questa venuta nella gloria, attraverso il quarto vangelo, che con audacia pro-fonda sa leggerla già nella storia di Gesù di Nazaret, addirittura nella sua passione. In es-sa avviene un’epifania: proprio quando Gesù è nel pretorio romano di Gerusalemme, consegnato dai capi dei giudei, si confessa davanti a Pilato “Re dei giudei”, cioè loro Messia, unto e inviato da Dio al suo popolo. Ma attenzione: nel quarto vangelo Gesù è un “Re al contrario”, non ha il potere mondano, la gloria dei re della terra, non si fregia dell’applauso della gente, non appare in una liturgia trionfale. Al contrario, proprio nella nudità di un uomo trattato come schiavo, quindi torturato, flagellato, finanche incoronato di spine, si rivela quale unico e vero Re di tutto l’universo, con una gloria che nessuno può strappargli, la gloria di chi ama gli altri fino alla fine (cf. Gv 13,1), di chi sa dare la vita per loro (cf. Gv 15,13), rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9): gloria dell’amore vissuto e dell’amore mai contraddetto.
Ma cerchiamo di leggere con obbedienza il racconto di questa scena, o meglio di questa “epifania”. La passione secondo Giovanni (cf. Gv 18,1-19,42), si compone di undici scene, ognuna situata in un luogo diverso. Al centro sta la scena dell’incoronazione di spine, in cui Gesù riceve l’adorazione dei soldati che lo sbeffeggiano e lo salutano con scherno: “Salve, Re dei giudei” (Gv 19,3), dandogli colpi in faccia. È una scena oggettiva-mente di derisione, di disprezzo, ma nel vangelo secondo Giovanni in verità è epifania, cioè rivela la vera regalità di Gesù, servo e vittima innocente del male del mondo. La scena-epifania di questa domenica è quella immediatamente precedente, la quarta, quando i capi dei giudei hanno ormai consegnato Gesù al procuratore romano, perché lo condanni a morte come malfattore. Pilato, che ha incontrato Gesù e non vorrebbe interessarsi della sua sorte, resiste alle pressioni degli accusatori e, entrato nel pretorio per chiamare Gesù, lo interroga. Innanzitutto gli chiede ciò che più gli interessa: “Sei tu il Re dei giudei?”. Ovvero: “Tu vanti un potere politico su questa terra e su questa gente?”. Questo, infatti, può essere un’insidia per Cesare. Ma Gesù non gli risponde subito, ponendogli invece a sua volta una domanda: “Tu, non ebreo, appartenente alle genti, ai gojim, mi fai questa domanda per una ricerca interiore o semplicemente perché sei istigato dai miei accusatori?”. Insomma, Pilato è manipolato dai capi dei giudei o la sua domanda nasce da una mozione interiore? Pilato, però, non comprende e mostra anzi il profondo disprezzo verso i giudei e anche verso Gesù, un uomo legato, consegnato a lui, inerme e per nulla bellico-so. Ripete solo a Gesù che sono proprio i suoi connazionali e correligionari ad averlo dato in balia del potere imperiale.
Segue dunque la domanda: “Che cosa hai fatto da poter essere incolpato, quale delitto contro la legge hai commesso?”. Ed ecco che Gesù fa la rivelazione: “Il Regno, quello mio, non è di questo mondo”. Quello di Gesù non è un regno che si instaura con la violenza della spada, non ha soldati pronti alla guerra, non è un regno tra i regni di questo mondo, in concorrenza tra loro. Ripeto, non è possibile nessuna concorrenza, tanto meno una conciliazione tra il Regno che Gesù annuncia e i regni che sono sulla terra: il Regno di Gesù è servizio, è dare la vita, è pace, giustizia e non può essere letto a partire dall’esperienza del potere propria degli esseri umani. Ma Pilato non riesce a reggere questa risposta di Gesù, non riesce a sintonizzarsi sulle sue parole. Non può fare altro che dirgli: “Dunque tu sei re?”, cioè pretendi – condannato come sei, in mio potere, ridotto a “cosa”, consegna-to a me dai capi dei giudei e da me consegnabile alla morte – di essere re? Gesù allora re-plica: “Tu lo dici: io sono Re. Per essere Re sono venuto in questo mondo, con una missione che mi chiede semplicemente di essere testimone della verità: testimone della verità sull’uomo che è chiamato a essere figlio di Dio; testimone della verità che deve essere ‘fatta’, realizzata da ogni uomo e da ogni donna; testimone della verità di un Dio che ha tanto amato l’umanità da darle suo Figlio (cf. Gv 3,16)”.
Stiamo attenti: la verità non è una realtà astratta, non è neppure riducibile a una dottrina o a un’etica, ma è innanzitutto una “vita”, la vita di un uomo conforme alla volontà di Dio, la vita di un uomo che è vera e autentica quando è donata, dunque la vita di Dio stesso che Gesù vive in sé e narra umanamente a tutti quelli che lo incontrano, lo vedono, lo ascoltano.
In questa risposta a Pilato, dunque in questa epifania, Gesù è Re più che mai, Re dell’universo, Re di tutta l’umanità, perché è lui l’umanità autentica come Dio l’ha pensata, voluta e creata. Qui Gesù si mostra Re più che mai, perché non ha nessuna paura, per-ché regna su tutto ciò che lo attornia e su tutto ciò che accade; domina gli eventi, resta libero e parla, agisce solo per amore: regna con la regalità con la quale regna Dio! Se c’è un’ora in cui il Regno di Dio è venuto, è stato in mezzo a noi e si è rivelato, è stato narrato, questa è l’ora della passione e della croce.
Comprendiamo allora perché l’evangelista subito dopo annota che Pilato, rivolgendosi alla folla e ai capi dei giudei, proclama per due volte che Gesù è innocente, che non c’è in lui alcuna colpa secondo il diritto romano (cf. Gv 18,38; 19,4; e ancora in 19,6); poi, dopo averlo fatto flagellare (cf. Gv 19,1), lo presenta con le parole: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Pi-lato però – ci rivela sempre l’evangelista – durante quell’interrogatorio ha paura, e quando sente che, secondo l’accusa, Gesù si è fatto Figlio di Dio, “ha ancor più paura” (cf. Gv 19,7-8). I poteri di questo mondo possono non avere paura l’uno dell’altro, e per questo si fanno guerra; ma di fronte a Gesù “hanno paura”, perché Gesù inerme, mite, povero, in-nocente, regna veramente ed è lui il Re e il Giudice di tutto l’universo.
Questa festa di Cristo Re è stata come rievangelizzata dalla riforma liturgica del Vati-cano II, grazie alla scelta delle letture evangeliche che presentano Gesù quale Re nella passione (il testo odierno è Lc 23,35-43) e quale Giudice veniente nella misericordia (cf. Mt 25,31-46).
(Enzo Bianchi)

Occhi spalancati sulla croce

In quel Vangelo che portavo sempre in tasca cercavo dunque, prima di tutto, l’incontro con uno Sguardo capace di illuminare ogni cosa.
Ricordavo le parole della catechesi: io sono la Via, la verità, la Vita. E non era forse questo l’affanno costante dei miei giorni? Tra l’opacità del quotidiano, tra i suoi infiniti e ingannevoli viottoli, trovare la Via, la strada maestra il cui ingresso spesso è celato dai rovi. Lì, ne ero certa, erano nascosti i pilastri della Verità, e solo quei pilastri sarebbero stati in grado di accogliere per sempre la mia vita nella dimensione della libertà assoluta.
Dunque, grazie a Francesco, a un tratto scoprii che Cristo poteva anche avere gli occhi aperti, e che le sue braccia, anziché pendere mestamente dalla croce, potevano essere spalancate in un cosmico abbraccio. Fino ad allora, i pochi crocefissi che avevo visto erano tutti tristemente e dolorosamente morti. Quella desolazione, quei corpi inanimati, quegli occhi chiusi mi avevano fatta sentire esclusa da qualsiasi possibilità di dialogo.
Quanti danni ha fatto – e continua a fare – una visione di Cristo unicamente doloristica! A chi può parlare un uomo tormentato dagli spasmi dell’agonia? In un mondo ormai completamente scristianizzato, in cui l’unico vero peccato riconosciuto è quello della gola – perché attenta alla linea – come si può immaginare che le persone inizino un cammino spirituale se, come sprone, hanno davanti a sé un’immagine che non ha nessun segno del-la potenza della vita che verrà?
Oh, magnifici crocefissi con gli occhi spalancati, con le braccia aperte, vive, pronte ad abbracciare e a consolare ogni pianto.
Oh, sguardo di pura Luce, sguardo che contiene l’universo e costantemente lo rigenera, tocca i nostri cuori, invalidi!
Solo Tu puoi sciogliere il ghiaccio, solo tu puoi compiere la misteriosa alchimia in grado di trasformare la pietra in carne, l’odio in amore, la non vita della menzogna in vita!
Solo Tu puoi liberarci dalle catene che ci tengono prigionieri, ignoti, sconosciuti e osti-li a noi stessi.
Solo Tu puoi donarci la libertà assoluta di chi non soccombe alla morte.
È questa la nostalgia che hai impresso in ogni embrione che si forma nella splendente profondità del ventre materno.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015, 145-147)

Una leggenda irlandese

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affliggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono. Le caratteristiche richieste erano le seguenti: 1) amare Dio e 2) amare gli altri esseri umani.
Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente poté mettersi in viaggio alla volta del castello. Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano: «Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?»
Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente poté accedere nella sala del trono.
Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore.
«Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada».
«Sì», rispose il re. «Quel mendicante ero proprio io».
«Ma non siete un vero mendicante. Siete il re».
«Sì, sono il re».
«Perché avete fatto questo?», chiese, allora, il giovane.
«Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali.
Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore.
Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani. Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!»

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 109-110).

Li mando a due a due

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli… Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio. L’ha fatto con Abramo da Ur dei Caldei (alzati e va’); con il popolo in Egitto (lo condurrai fuori, nel deserto…); con il profeta Giona (alzati e va’ a Ninive); con Israele ormai installato al sicuro nella terra promessa.
Dio viene a snidarti dalla vita stanca, dalla vita seduta; mette in moto pensieri nuovi, ti fa scoprire orizzonti che non conoscevi. Dio mette in cammino. E camminare è un atto di libertà e di creazione, un atto di speranza e di conoscenza: è andare incontro a se stessi, scoprirsi mentre si scopre il mondo, un viaggio verso un altro mondo possibile.
Partono i discepoli a due a due. E non ad uno ad uno. Il loro primo annuncio non è trasmesso da parole, ma dall’eloquenza del camminare insieme, per la stessa meta. E ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuore.
Un elogio della leggerezza quanto mai attuale: per camminare bisogna eliminare il superfluo e andare leggeri. Né pane né sacca né denaro, senza cose, senza neppure il necessario, solo pura umanità, contestando radicalmente il mondo delle cose e del denaro, dell’accumulo e dell’apparire. Per annunciare un mondo altro, in cui la forza risiede nella creatività dell’umano: «l’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci).
Entrati in una casa lì rimanete. Il punto di approdo è la casa, il luogo dove la vita nasce ed è più vera. Il Vangelo deve essere significativo nella casa, nei giorni delle lacrime e in quelli della festa, quando il figlio se ne va, quando l’anziano perde il senno o la salute… Entrare in casa altrui comporta percepire il mondo con altri colori, profumi, sapori, mettersi nei panni degli altri, mettere al centro non le idee ma le persone, il vivo dei volti, lasciarsi raggiungere dal dolore e dalla gioia contagiosa della carne.
Se in qualche luogo non vi ascoltassero, andatevene, al rifiuto i discepoli non oppongono risentimenti, solo un po’ di polvere scossa dai sandali: c’è un’altra casa poco più avanti, un altro villaggio, un altro cuore. All’angolo di ogni strada, l’infinito.
Gesù ci vuole tutti nomadi d’amore, gente che non confida nel conto in banca o nel mattone, ma nel tesoro disseminato in tutti i paesi e città: mani e sorrisi che aprono porte e ristorano cuori. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Dio chiama e mette in viaggio per guarire la vita, per farti guaritore del disamore, laboratorio di nuova umanità.

(Ermes Ronchi)