Quel Dio che s’immerge nelle nostre ferite

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne. Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.
La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa.
Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona. Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo «posseduto», prigioniero di uno più forte di lui.
E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che «il Vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).
Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi. A essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui.
Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il Vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro «Cristo, mia dolce rovina» (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.

(Ermes Ronchi)

Preti così

Ho trovato in Settimana News un articolo che ho colto molto interessante e desidero proporre alla vostra attenzione

Per le nostre comunità parrocchiali abbiamo bisogno di pastori che sanno vedere oltre e lontano.
Che si lasciano trafiggere per primi il cuore e la vita dalla spada della Parola e dall’amore del Cielo.
Che perdano l’ossessione per se stessi e ritrovino la sensibilità per il pianto altrui.
Che non stiano a calcolare il tempo, né a vedere l’orologio.
Che siano disposti a farsi mangiare proprio come Uno che conosciamo.
Che abbiano a cuore tutti, a cominciare dagli ultimi proprio per non escludere nessuno.
Che si lascino disturbare sempre e da tutti.
Che vadano a cercare tutti proprio come Dio ha fatto subito e per sempre.
Che non si accontentino di novantanove pecore su cento, ma che non abbiano pace finché non ritrovino anche l’ultima.
Che non diano solo regole e divieti ma che portino pace e vera libertà.
Che sappiano indicare la meta e con pazienza ricalcolare il percorso tutte le volte proprio come un tomtom.
Che siano attenti alla fame, alla sete, alla nudità, alla mano tesa di chiunque, non pensando mai che queste sono cose secondarie.
Che sappia offrire sempre anche ciò che gli altri non sanno chiedere, ma che desiderano tanto.
Che sappia regalare momenti di semplice spensieratezza e offrire rapimenti ultraterreni.
Che non passi mai oltre e mai dall’altra parte quando incrocia un uomo, tantomeno se ferito.
Che sappia sempre qual è l’indirizzo del malato e non lo lasci solo. Che sappia piangere con chi piange.
Che sappia aspettare e trascinare. Stare insieme e andare avanti.
Che non perda mai di vista chi rimane indietro.
Che sappia avere una parola per lo sfiduciato e una carezza per chi è solo.
Che non si metta al di sopra degli altri ma che – come gli ricorda la parola con la quale viene definito “ministro” – sia disposto a stare sotto per sostenere chiunque.
Che non abbia timore a bussare e non abbia paura di aprire.
Che possa portare il profumo di Cristo e l’odore delle pecore.
Che sia disposto a lavare i piedi non solo il giovedì santo durante la liturgia.
Che gioisca quando qualcuno gli chiede di confessarsi.
Che quando celebra la messa o qualsiasi altro sacramento ci metta tanta di quella passione da contagiare.
Che non trattenga nulla di quanto gli passa nelle mani se non quello che gli basta per vivere.
Che sia disposto a fare anche le cose più umili.
Che non scansi la fatica e il lavoro come fossero malattie.
Che sappia riconoscere le pecore dai lupi e non abbandoni il gregge quando è minacciato.
Che sappia accettare le offese e sopportare l’ingratitudine.
Che abbia un bagaglio leggero per essere sempre pronto alle variabili verticali.
Che coltivi un’intimità con Dio che gli trasfiguri il volto come Mosè.
Che sappia riconoscere le orme del Risorto e il passaggio degli angeli.
Che sappia gioire di ogni piccolo traguardo dei suoi fedeli e dei suoi confratelli.
Che respinga la mondanità ma che ami il mondo.
Che non si ostini a fare da solo.
Che senta la gioia di andare a due a due e di lavorare insieme.
Che non creda mai di essere migliore degli altri.
Che si ricordi sempre che è stato generato in una comunità e che non si trova in nessun posto a nome suo.
Che sappia essere operatore di pace e costruttore di comunione.
Che non sia mai causa di divisioni.
Che sappia innamorare tutti alle cose belle.
Che risvegli la nostalgia che ogni uomo porta nel cuore del cielo.
Che, mentre conduce pian piano le pecore madri, cioè quelle che, per la loro generosità, sono stanche, si porti gli agnellini sul petto, cioè abbia cura dei piccoli e dei giovani, sappia stare con loro e si lasci contagiare dalla loro fantasia e dalla loro esuberanza.
Che sappia essere vicino a tutti e non sia estraneo a nessuno e distante da nemmeno uno, soprattutto se l’ultimo.
Che sappia essere talmente libero da essere pronto a lasciare tutto come la prima volta.
Che abbia fiducia nella provvidenza e non si lasci vincere dalla paura.
Che abbia una speranza nel cuore e corra spedito verso la meta.
Che sia contento di farsi popolo e non guardi nessuno dall’alto in basso.
Che faccia tutto per amore di Colui che l’ho ha amato.
Che gli scoppi nel cuore la gratitudine per la grande quantità di regali che riceve.
Che sappia inginocchiarsi davanti al tabernacolo e lo sappia fare anche davanti alla carne di Cristo nei fratelli.
Che sia uomo della Pasqua, dallo sguardo rivolto al Regno, verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni (papa Francesco).

Preti così ce ne sono. Forse non hanno tutte le qualità che agli occhi nostri sembrano necessarie e fondamentali, ma ce ne sono.

Nella notte, Dio viene

Eppure viene. Questo Dio ostinato nell’amore, che non tiene conto del male ricevuto e si rigetta dietro le spalle il nostro peccato, che non si arrende al male ma fa sorgere semi di speranza anche nei deserti più aridi, che soffre con noi quando cadiamo negli abissi del dolore, che mai e poi mai è il Dio dipinto da taluni, quello serioso, castigatore, vendicatore e assetato del nostro sacrificio, viene.
E il venire di Dio nella nostra vita e nella nostra storia è sempre un venire nella notte del cuore e del mondo. Nella notte di Israele, in quella di Giacobbe, fino alla notte Getsemani, notte di abbandono, solitudine e tradimento, quando Gesù scopre la radice della preghiera nell’atto di consegnarsi con fortezza interiore al proprio destino;[1] per poi giungere a quella notte che si apre al trionfo dell’alba la mattina di Pasqua, quando le donne scoprono la presenza vittoriosa dell’amore definitivo di Dio nel vuoto di una tomba, nella quale ormai la luce ha definitivamente vinto la notte del peccato e della morte.
Sempre di notte viene la luce. Ed è così anche nel Natale del Signore: la luce viene nelle tenebre del mondo e le tenebre non l’hanno vinta. Durante l’Udienza Generale del 10 giugno scorso, papa Francesco ha affermato: «Tutti quanti noi abbiamo un appuntamento nella notte con Dio, nella notte della nostra vita, nelle tante notti della nostra vita: momenti oscuri, momenti di peccati, momenti di disorientamento. Lì c’è un appuntamento con Dio, sempre. Egli ci sorprenderà nel momento in cui non ce lo aspettiamo».
Proprio nella notte può esserci una grazia nascosta, un mistero di benedizione della nostra vita che prende forma nelle domande, in una pausa rigenerante, in una possibilità di cambiamento, nella riscoperta di certi valori della vita. Questa notte del dolore o del dubbio può aprirsi alla luce della scoperta se la attraversiamo con la luce della fede e ci arrendiamo al Dio che è capace di squarciare ogni tenebra.

http://www.settimananews.it/spiritualita/nella-notte-dio-viene/?utm_source=newsletter-2020-12-22

Il deserto

«Il deserto insegna l’essenzialità, è apprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzza lo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante. L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria. Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale: egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio che scruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa cammino per il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). Il suo cibo è parco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che viene dopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma ha vissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’ami-co dello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce […] Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che “Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio”».

(Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 50-51).

Il Precursore di Gesù

San Gregorio Magno commenta che il Battista “predica la retta fede e le opere buone … affinché la forza della grazia penetri, la luce della verità risplenda, le strade verso Dio si raddrizzino e nascano nell’animo onesti pensieri dopo l’ascolto della Parola che guida al bene” (Hom. in Evangelia, XX, 3, CCL 141, 155).
Il Precursore di Gesù, posto tra l’Antica e la Nuova Alleanza, è come una stella che precede il sorgere del Sole, di Cristo, di Colui, cioè, sul quale secondo un’altra profezia di Isaia “si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2).Nel Tempo dell’Avvento, anche noi siamo chiamati ad ascoltare la voce di Dio, che risuona nel deserto del mondo attraverso le Sacre Scritture, specialmente quando sono predicate con la for-za dello Spirito Santo. La fede, infatti, si fortifica quanto più si lascia illuminare dalla Parola divina, da “tutto ciò che come ci ricorda l’apostolo Paolo è stato scritto prima di noi… per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che pro-vengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza” (Rm 15,4).
Il modello dell’ascolto è la Vergine Maria: “contemplando nella Madre di Dio un’esistenza totalmente modellata dalla Parola, ci scopriamo anche noi chiamati ad entra-re nel mistero della fede, mediante la quale Cristo viene a dimorare nella nostra vita. Ogni cristiano che crede, ci ricorda sant’Ambrogio, in un certo senso concepisce e genera il Ver-bo di Dio” (Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 28).Cari amici, “la nostra salvezza poggia su una venuta”, ha scritto Romano Guardini (La santa notte. Dall’Avvento all’Epifania, Brescia 1994, p. 13). “Il Salvatore è venuto dalla libertà di Dio… Così la decisione della fede consiste… nell’accogliere Colui che si avvicina” (ivi, p. 14). “Il Redentore aggiunge viene presso ciascun uomo: nelle sue gioie e angosce, nelle sue conoscenze chiare, nelle sue perplessità e tentazioni, in tutto ciò che costituisce la sua natura e la sua vita” (ivi, p. 15).
Alla Vergine Maria, nel cui grembo ha dimorato il Figlio dell’Altissimo, e che mercoledì prossimo, 8 dicembre, celebreremo nella solennità dell’Immacolata Concezione, chiediamo di sostenerci in questo cammino spirituale, per accogliere con fede e con amore la venuta del Signore.

(BENEDETTO XVI, Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 05.12.2010)