DAI PENSIERI DI PADRE MARIO VENTURINI
Voglio essere un Sacerdote santo, ma in tutta la verità di questa parola. (Memorie, 24 agosto 1930)
Centro di Spiritualità della Congregazione di Gesù Sacerdote
DAI PENSIERI DI PADRE MARIO VENTURINI
Voglio essere un Sacerdote santo, ma in tutta la verità di questa parola. (Memorie, 24 agosto 1930)
DAI PENSIERI DI PADRE MARIO VENTURINI
Non so che dire degli altri miei Confratelli: posso solo confessare che io mi sono diportato da miserabile e da indegno di tanti favori celesti, per cui provo più che mai il bisogno di implorare la divina misericordia e la tua materna intercessione, o Maria! (Memorie, 8 dicembre 1938)
DAI PENSIERI DI PADRE MARIO VENTURINI
Ho pensato più volte che un segno evidente della mia nullità, è la degnazione del Signore di prendermi e di adoperarmi come istrumento. Però, mi sono accorto più volte che sebbene mi sia “un nulla strumento” penso e mi industrio perché anche altri pensino, nella Congregazione e fuori, che sono più strumento che nulla, e talora metto in vista ciò che sono e faccio… Più miserabile di così! (Memorie – 15 Dicembre 1955)
– Prof. Unterburger, in che cosa differisce l’immagine del prete nel XIX secolo da quella che conosciamo oggi?
A partire dal Medioevo, è diventato sempre più importante che i preti siano dei buoni pastori. L’ideale del buon pastore era molto importante, e ha sostituto ciò che prima era decisivo, ossia offrire con mani pure il culto, il rito, il sacrificio eucaristico. Questi aspetti non sono scomparsi, ma la dimensione pastorale è divenuta sempre più importante.
Nel secolo 19° si aggiunsero molte altre aspetti. Da una parte, il fatto di una società ostile alla Chiesa, da cui prendere le distanze. Dall’altra, una riforma della formazione in modo da garantire ai preti di essere formati accademicamente e di rispondere a determinati standard accademici.
Ne derivò che i preti furono tenuti in grande considerazione, soprattutto, naturalmente, dai loro fedeli, ma spesso anche al di fuori della Chiesa. Si tratta di sacerdoti forniti di formazione accademica totalmente dediti alla loro comunità, buoni pastori, che assistono i malati e i moribondi al loro capezzale, e si sentono responsabili della salvezza di tutto il loro gregge e, allo stesso tempo, cercano di vivere un ideale che ai cristiani normali in realtà non è possibile e perciò godono di un alto prestigio tra il popolo cattolico di Dio.
Si tratta pertanto di un ideale che, da un lato, suscita riverenza tra i fedeli cattolici, ma che, dall’altro, è anche fragile. Un ideale difficile da vivere, e non tutti vi riescono e nel quale è possibile anche il fallimento.
– Lei ha sottolineato che la società nel 19° secolo era già diventata critica nei confronti della Chiesa. Allo stesso tempo, molte cattedrali famose e anche ordini religiosi di successo sorsero in quel periodo. Come si accordano questi due aspetti?
Sono due realtà che non si escludono necessariamente tra loro. Da un lato, si può dire che, fin dai tempi dell’Illuminismo e poi nel 19° secolo, il liberalismo si diffuse in quasi tutte le società cattoliche, come anche nell’area protestante. Le correnti critiche nei confronti della Chiesa determinarono un calo dell’influenza della Chiesa. La parola chiave divenne anticlericalismo…
Ma, allo stesso tempo, avviene una specie di automodernizzazione e un rinnovamento della Chiesa. Vengono fondati nuovi istituti religiosi e costruite nuove chiese. Anche la burocrazia non è un fenomeno del tutto negativo, perché riesce a raggiungere il popolo di Dio in un modo intensivo, così che, se, da un lato, una parte della società è persa per la Chiesa, dall’altro, la società è fortemente motivata e percepita come Chiesa popolare, come mai era stato in precedenza.
Pertanto, si verifica in certo senso anche un rafforzamento del cristianesimo. Sono fenomeni che, in certa misura, si condizionano a vicenda. Proprio perché si desidera prendere le distanze dalla miscredenza e dalle correnti critiche nei confronti della Chiesa nelle grandi città, è necessario immunizzare i fedeli, equipaggiarli, approfondire la loro fede, organizzarli in circoli, formarli attraverso la stampa ecclesiastica e via dicendo. Tutto questo è connesso e reciprocamente dipendente.
– Oggi molti preti parlano di sovraccarico di impegni, nel senso che molti considerano amministrativamente loro compiti cose che non hanno nulla a che fare con la pastorale o la liturgia. Questo fenomeno si era già profilato allora?
Si è rivelato poco alla volta per il fatto che la burocrazia aumentò a partire dall’Illuminismo e anche nel 19° secolo. Questo fece semplicemente parte della “professionalità” del ministero parrocchiale. Come la burocrazia nello Stato crebbe sempre più, così avvenne anche nella Chiesa.
Ma naturalmente era qualcosa di diverso, perché le parrocchie nel 19° secolo erano in genere molto più piccole di oggi, dove esistono grandi associazioni. Si tratta di una dimensione del tutto diversa, che oggi ricade sui preti per il fatto che c’è scarsità di clero.
– Oggi in certi ambienti si sostiene che i doveri sacerdotali come l’obbedienza e il celibato non debbano essere presi tanto sul serio. La realtà – dicono – è diversa da ciò che sta scritto. Questo fatto si era manifestato anche prima o si tratta di uno sviluppo nuovo?
Il 19° secolo è in realtà l’epoca in cui soprattutto i parroci divennero molto più dipendenti dal vescovo. Il vescovo, in quel tempo, controlla molto più da vicino la formazione dei preti. Mentre nei secoli precedenti la maggior parte del tempo della formazione in seminario avveniva sotto il controllo dei vescovi, ora è possibile trascorrere l’intero periodo degli studi – spesso anche prima del ginnasio – in un pensionato.
Prima del 19° secolo, i parroci nelle loro parrocchie vivevano in località in genere lontane dal vescovo ed erano più che mai indipendenti. Ci poteva essere forse una visita del vescovo o qualche altro incontro. Uno veniva ordinato dal vescovo ed era quella la prima ed ultima occasione di incontrarlo. Nel 19° secolo nascono i grandi organismi come i vicariati generali.
I vescovi attualmente hanno possibilità del tutto diverse attraverso le disposizioni, gli esercizi per i sacerdoti, la formazione permanente ecc., per rendere i sacerdoti e anche i parroci sempre meno indipendenti. Tutto ciò in certa misura è contenuto anche nel diritto canonico. Avviene che i parroci possono essere più facilmente trasferiti da parte del vescovo e che la gente consideri un dovere di obbedienza da parte del parroco lasciare di nuovo la parrocchia dopo qualche anno.
– Che ruolo esercita il tema dell’abuso sessuale? Lo si può spiegare anche con questi sviluppi?
Questa è una domanda molto difficile perché mancano le fonti per il periodo anteriore al 1945 o sono di difficile accesso in seguito al segreto confessionale. Ma si può ritenere che alcune decisioni abbiano un loro ruolo a questo riguardo. Sviluppi che riguardano l’ideale pastorale.
Anzitutto ci sono impegni del tutto positivi per il fatto che il sacerdote, il cappellano in genere, abbiano il compito di curare la formazione dei giovani e vivano alcuni periodi con loro. Sono cose che forse nessun prete faceva in questa forma nell’epoca pre-moderna. Si tratta di fattori strutturali che possono rendere possibili in certa misura queste cose (gli abusi).
– Lei che cosa si aspetta una grande conferenza che in Vaticano tratterà della figura moderna del prete? Con quale sguardo la osserverà?
Credo che questo dibattito sia andato avanti molto intensamente qui da noi per anni e, di recente, anche in molte altre società, in particolare nell’Europa occidentale e centrale. Sono abbastanza sicuro che non sia un problema europeo o americano, ma che esistano fenomeni del genere anche in altre culture e società in cui questi dibattiti non avvengono così intensamente, sia nell’Europa meridionale che in quella orientale sia nell’ambito extraeuropeo.
Quando se ne parlerà a Roma, è importante che vi sia una sensibilizzazione generale di questo grave problema nella Chiesa. Roma può avere un certo effetto di segnale e rafforzare in certa misura gli standard in tutto il mondo. L’attenzione cresce. Questa comunque è la mia speranza (KNA, 11 febbraio 2022).
[1] Il prof. dott. Klaus Unterburger è docente di Storia della Chiesa medievale e moderna presso la Facoltà di teologia cattolica dell’Università di Regensburg (Ratisbona).
Prendo questo lungo ma interessante articolo da Settimana News. E’ una riflessione di Andrea Lebra su come papa Francesco vede la figura del presbitero.
Attingendo al ricco magistero di papa Francesco, è possibile delineare il ritratto del prete ideale che anche noi, christifideles laici, ameremmo vedere nelle nostre comunità? Parrebbe proprio di sì.
Dai discorsi, dalle omelie, dalle lettere e dai messaggi di Francesco, che hanno ad oggetto in modo diretto o indiretto la missione del prete, emerge, tassello dopo tassello, un mosaico decisamente ricco che, più che soffermarsi su semplici e aride definizioni di tipo dottrinale e sistematico, denota l’intento di offrire l’identikit del prete ideale della Chiesa di oggi, tenendo in stretta correlazione la sostanza e la forma, il contenuto e il vissuto.
Di questo mosaico si possono mettere in risalto almeno sette tessere.
In quanto «uomo di misericordia e di compassione», il prete «cammina con il cuore e il passo dei poveri…, è reso ricco dalla loro frequentazione» e si lascia «segnare dal grido di chi soffre». Egli muove dal riconoscimento che emarginati, poveri e senza speranza «sono stati eletti a sacramento di Cristo» e «sono la carne di Cristo». Ogni cristiano – quindi, «anche i pastori» – e ogni comunità sono chiamati ad essere «strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società», facendo loro spazio nella Chiesa anche quando la riempiono di insulti. «Il volto più bello di un Paese e di una città è quello dei discepoli del Signore – vescovi, sacerdoti, religiosi, fedeli laici – che vivono con semplicità, nel quotidiano, lo stile del Buon Samaritano e si fanno prossimi alla carne e alle piaghe dei fratelli, in cui riconoscono la carne e le piaghe di Gesù». La Chiesa ha bisogno di pastori (vescovi, ma anche preti: ndr) che, mettendo da parte «ogni forma di supponenza», si inginocchiano «davanti agli altri per lavare loro i piedi».
In quanto «uomo del dono e del perdono», il prete sa mantenersi «distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato». «La durezza gli è estranea», perché non è «un ispettore del gregge» o «un ragioniere dello spirito», ma un «pastore secondo il cuore mite di Dio». Anche nei momenti faticosi diffonde serenità intorno a sé, «trasmettendo la bellezza del rapporto con il Signore». Della grazia non è controllore, ma facilitatore; per lui la Chiesa non è una dogana «colpevolizzante», ma «la casa paterna dove c’è posto per tutti con la loro vita faticosa». Egli si sente chiamato dal Signore «a un’opera splendida, a lavorare perché la sua casa sia sempre più accogliente, perché ognuno possa entrarvi e abitarvi, perché la Chiesa abbia le porte aperte a tutti e nessuno abbia la tentazione di concentrarsi solo a guardare e cambiare le serrature». «Esperto in umanità», il prete «porta concordia dove c’è divisione, armonia dove c’è litigiosità, serenità dove c’è animosità».
In quanto «apostolo della gioia», il prete dimostra fedeltà alla sua vocazione trasmettendo al Popolo di Dio, con il suo modo di vivere, la gioia che sente dentro di sé e che deriva dal suo rimanere radicato in Cristo. La gioia del prete «è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il Popolo fedele di Dio». La gioia, peraltro, «è il segno del cristiano: un cristiano senza gioia o non è cristiano o è ammalato». E «la gioia del cristiano non è l’emozione di un istante o un semplice ottimismo umano, ma la certezza di poter affrontare ogni situazione sotto lo sguardo amoroso di Dio, con il coraggio e la forza che provengono da Lui… Senza gioia, la fede diventa un esercizio rigoroso e opprimente, e rischia di ammalarsi di tristezza… Non c’è santità senza gioia». Anche in mezzo alle difficoltà, il prete conserva il senso dell’umorismo, una delle caratteristiche della santità. Grazie ad esso, può ridere degli altri, di se stesso e anche della propria ombra.
In quanto «uomo della Pasqua e dallo sguardo rivolto al Regno di Dio», verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni, il prete «ama la terra che riconosce visitata ogni mattina dalla presenza di Dio». Egli «non è mai arrivato», ma è sempre un «pellegrino sulle strade del Vangelo e della vita, affacciato sulla soglia del mistero di Dio e sulla terra sacra delle persone a lui affidate». Lasciandosi ogni giorno formare dal Signore, evita di diventare un «prete spento» e di trascinarsi nel ministero «per inerzia», «senza entusiasmo per il Vangelo e senza passione per il Popolo di Dio». Affidandosi giorno per giorno «alle mani sapienti del Vasaio (con la «V» maiuscola), conserva nel tempo l’entusiasmo del cuore, accoglie con gioia la freschezza del Vangelo, parla con parole capaci di toccare la vita della gente. E le sue mani, unte dal vescovo nel giorno dell’ordinazione, sono capaci di ungere a loro volta le ferite, le attese e le speranze del Popolo di Dio». Il suo non è «un cuore ballerino che si lascia attrarre dalle suggestioni del momento», ma un cuore saldo nel Signore, aperto e disponibile ai fratelli e alle sorelle.
In quanto costituito in favore della gente nelle cose che si riferiscono a Dio, il prete è autorevole ma non autoritario, fermo ma non duro, gioioso ma non superficiale, pastore ma non funzionario: sa stare in mezzo alla gente come padre e fratello, condividendone gioie e sofferenze. «Non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è, infatti, ostinato nel bene… Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso». A volte si pone davanti al Popolo di Dio per indicare la strada e sostenerne speranze e aspirazioni, altre volte sta in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze cammina dietro al Popolo di Dio per aiutare e infondere coraggio a coloro che faticano a stare al passo. Nei confronti dei battezzati laici il prete non si comporta come il padrone della baracca, ma mette concretamente al bando non solo ogni visione verticista e distorta del suo ministero, ma anche ogni forma di clericalismo sia attivo (la tentazione, da parte del clero, di clericalizzare i laici) che passivo (il desiderio dei laici di essere clericalizzati). Il clericalismo, infatti, è una perversione che mantiene i fedeli laici al margine delle decisioni, in quanto tende a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale posta dallo Spirito Santo nel loro cuore. «Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla, o fa finta di ascoltare». Il prete promuove e valorizza la partecipazione alla vita della Chiesa di ogni persona battezzata dotata del sensus fidei che l’aiuta a «discernere ciò che viene realmente da Dio». Nella sua comunità «tutti sono protagonisti e nessuno può essere considerato semplice comparsa».
In quanto contemplativo della Parola e contemplativo del Popolo di Dio, il prete mette Dio e le persone al centro delle sue preoccupazioni quotidiane, «diffonde alla luce del Vangelo il gusto di Dio intorno a sé, trasmette speranze ai cuori inquieti». Si nutre della Parola che predica, facendola risuonare in tutto il suo splendore nel cuore del Popolo avendo essa risuonato dapprima nel suo cuore di pastore. «La sua parola, predicata o scritta, attinge chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli esseri umani, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito»: «non è uno che esige la perfezione, ma uno che invita ciascuno a dare il meglio». Poiché l’ignoranza delle Scritture sacre è ignoranza di Cristo, il prete sente forte l’esigenza di renderle accessibili e familiari alla propria comunità, realizzando tutto ciò che serve perché i fedeli possano frequentarle con assiduità. Consapevole, inoltre, che la religione non può limitarsi all’ambito privato e che non esiste solo per preparare le anime per il cielo, egli «diffida delle esperienze che portano a sterili intimismi e delle spiritualità appaganti che sembrano dare consolazione e invece portano a chiusure e rigidità». Rifiuta ogni spiritualità disincarnata ed è disponibile a sporcarsi le mani con i problemi della gente, senza usare i guanti. Si impegna «a risvegliare nelle persone l’umano per aprirle al divino» e «a ridare ai poveri la parola, poiché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia». Ed è la parola che potrà «aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole». In altri termini, il prete nutre la speranza e coltiva il sogno di cambiare il mondo con il Vangelo.
In quanto profondamente consapevole che «il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio è quello della sinodalità» che, lungi dall’essere una moda o uno slogan, esprime la natura, la forma, lo stile e la missione della Chiesa, come prete avverte l’urgenza di contribuire a costruirla, non occasionalmente ma strutturalmente. A partire dalla valorizzazione degli organismi di partecipazione e corresponsabilità che, a livello parrocchiale, dovrebbero favorire «il dialogo e l’interazione nel Popolo di Dio, soprattutto fra sacerdoti e laici». Tutti hanno qualcosa da imparare dagli altri, a condizione che ci si incontri senza formalismi e senza infingimenti e ci si metta in ascolto delle domande, degli affanni e delle speranze del Popolo di Dio per essere in grado di discernere ciò che lo Spirito ci suggerisce per evitare di diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. L’autentico obiettivo della sinodalizzazione della Chiesa, infatti, «è far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani».